La battaglia di Kursk
OPERAZIONE CITTADELLA
brano tratto da R.Overy - "Russia in guerra", Il saggiatore 2000
Con l’arrivo del disgelo e delle piogge del marzo 1943, entrambe le parti si fermarono a considerare le strategie migliori da adottare nel nuovo anno. Hitler era molto meno ottimista sulle possibilità tedesche di quanto non lo fosse stato l’anno precedente e, come Stalin, lasciò ai suoi comandanti una maggiore libertà nella definizione e nella pianificazione delle operazioni. Il feldmaresciallo von Manstein elaborò un piano denominato in codice Cittadella. L’obiettivo dell’operazione era l’ampio saliente sovietico intorno alla città di Kursk, che formava un’arco largo oltre centonovanta chilometri che si incuneava per circa cento chilometri all’interno del fronte tedesco. Là era concentrato il grosso dell’Armata Rossa. Manstein aveva preparato un piano per circondare quell’area con due potenti tenaglie corazzate che, chiudendosi da nord e da sud, avrebbero tagliato il collo del saliente. Lo scopo era di distruggere una gran parte dell’Armata Rossa in un punto critico del fronte, consentendo alle forze armate tedesche di riconquistare le regioni meridionali o di lanciarsi a nordest, alle spalle di Mosca. Manstein propose con insistenza di attaccare in aprile o in maggio, prima che le forze sovietiche avessero il tempo di riorganizzarsi e di trincerarsi in difesa, ma Hitler non intendeva lanciarsi in un’altra impresa rischiosa, e fu irremovibile nel voler attendere fino a giugno, quando sarebbero stati disponibili più carri armati. Alla fine rinviò l’inizio dell’offensiva ai primi di luglio, per essere ancora più sicuro della vittoria.
I comandanti sovietici si trovavano ad affrontare una sfida difficilissima, che non ammetteva errori. In precedenza, nel 1941 e nel 1942, avevano sbagliato le previsioni sulla potenza e sulla direzione degli attacchi tedeschi. Questa volta non potevano permettersi di sbagliare ancora. Gli ufficiali dello stato maggiore si misero nei panni di Hitler. Dalle informazioni a disposizione dello spionaggio, sapevano che le forze tedesche non erano ancora pronte a lanciare una campagna su vasta scala. E dalla concentrazione di forze tedesche intorno a Orèl, a nord del saliente di Kursk, e a Charkov a sud, sembrò chiaro che l’attacco principale sarebbe avvenuto in quel settore. Con l’esperienza ormai biennale della pianificazione bellica tedesca, ipotizzarono correttamente che l’attacco sarebbe stato lanciato da due forti offensive corazzate per tagliare il saliente alle loro sfalle, circondando le armate sovietiche schierate nel saliente stesso. Zukov supponeva che l’obiettivo finale fosse Mosca. Nessuno si mostrò contrario a questa valutazione della situazione. Per la prima volta l’alto comando sovietico aveva visto giusto.20
La decisione più difficile riguardava il tipo di risposta da dare. Stalin seguì il suo istinto e chiese un’offensiva preventiva prima che le linee tedesche potessero rinsaldarsi. Zukov espresse un parere diverso, proponendo una difesa in profondità che assorbisse l’urto delle ali destra e sinistra tedesche, logorando le forze nemiche prima di assestare il colpo finale con ingenti forze di riserva scagliate in avanti dalle retrovie: la stessa strategia proposta da alcuni ufficiali superiori nel 1941. L’esito di quella discussione mostrò uno Stalin molto diverso dal solito. L’8 aprile 1943 si trovava in riunione con lo stato maggiore quando arrivò il rapporto di Zukov che rifiutava il piano di Stalin per un’«offensiva preventiva» e confermava le informazioni dello spionaggio, secondo le quali l’obiettivo tedesco era il saliente di Kursk. Stalin si astenne dall’esprimere giudizi e, come ricordò Stemenko, non fece neppure ricorso alle solite accuse di disinformazione e inganno contro le informazioni dello spionaggio sulle intenzioni nemiche, come era successo nel 1941 e nel 1942. Convocò invece una riunione per il 12 aprile, nel corso della quale ascoltò attentamente l’analisi delle intenzioni tedesche, prese in considerazione i rapporti dei comandanti sulla linea del fronte che, con una sola eccezione, appoggiavano la scelta di Zukov, e infine approvò il piano di Zukov. Si agitò solamente quando qualcuno disse che il probabile obiettivo tedesco era l’accerchiamento di Mosca: diede allora ordine a Zukov di organizzare una linea di difesa insuperabile lungo il fronte centrale intorno a Kursk.
L’insolita disponibilità di Stalin ad accettare il parere degli esperti quasi sicuramente salvò l’Armata Rossa da un’altra campagna estiva disastrosa. Prevalse il piano di Zukov (sempre che fosse effettivamente suo). Come nel caso della controffensiva di Stalingrado, restano infatti ancora alcuni dubbi sulla paternità dell’idea che fu alla base della battaglia di Kursk. L’importante comunque è che Zukov, qualunque fosse il suo debito in questo senso nei confronti dei comandanti dei fronti locali, riuscì a convincere Stalin che quella era la cosa giusta da fare, anche se Stalin era di diversa opinione. Il piano rappresentava un ritorno alle tradizioni del pensiero militare sovietico (in effetti russo), espresso dal concetto di «battaglia in profondità». Il fronte difensivo fu preparato con una profondità e un’accuratezza un tempo negate alle forze armate sovietiche: fu progettato per utilizzare al massimo la potenza di fuoco e per consentire alle forze difensive di muoversi con efficacia per contrastare la spinta tedesca. La costituzione di riserve nelle retrovie per compiere il contrattacco pose allo stato maggiore difficili problemi di coordinazione e di organizzazione dei tempi. L’intera operazione si basava su una precisa gestione del campo di battaglia più vasto che un comandante sovietico avesse mai controllato in passato.
I preparativi cominciarono immediatamente. Il peso maggiore della difesa cadde sul fronte centrale e sul fronte di Voronez, che occupavano i fianchi nord e sud del saliente. Il fronte centrale era comandato dal generale Konstantin Rokossovskij, l’uomo che aveva eliminato la sacca di Stalingrado e che fu uno dei più brillanti comandanti di entrambe le parti in guerra. Come Zukov, verso il quale nutriva una forte rivalità, anch’egli proveniva da una famiglia di operai russi. Figlio di un macchinista delle ferrovie, restò orfano all’età di quattordici anni e cominciò a lavorare come muratore. Andò sotto le armi nel 1914, fu promosso sergente di cavalleria e si unì all’Armata Rossa nel 1918, iniziando una carriera di ufficiale di cavalleria che lo avrebbe portato a comandare un corpo nel 1936. Il risalto di questa carica bastò a farlo incappare nella rete delle epurazioni. Passò tre anni in prigione: un’esperienza che gli lasciò un profondo disgusto per gli ufficiali politici che si aggiravano intorno alle forze armate in cerca delle loro prede. Era un uomo forte e schietto, uno di quelli che non esitavano a contraddire Stalin, e anche Zukov, quando riteneva che fosse necessario. Il cornandante del fronte di Voronez, Nikolaj Vatutin, era più vicino a Zukov ed era stato suo vice nel 1941. Aveva prestato servizio come ufficiale di stato maggiore fino a quando gli fu assegnato il comando del fronte principale nella controffensiva di Stalingrado. Aveva svolto un ruolo centrale nella pianificazione di quella campagna e, su sollecitazione di Zukov, era stato trasferito al comando del fronte di Kursk per la sua provata capacità strategica: uno dei molti comandanti superiori che si erano guadagnati i galloni secondo la tradizione russa, in virtù dei successi sul campo.
Vatutin e Rokossovskij ammassarono sette armate nel saliente intorno a Kursk. A nord e a sud del saliente il fronte di Brjansk e quello sudoccidentale furono rinforzati per fornire il trampolino di lancio della controffensiva. Le forze della riserva furono concentrate nel fronte della steppa, a duecentocinquanta chilometri dalla linea del fronte: un’armata corazzata, due armate di fanteria e la 5a armata aerea al comando del generale Konev, che Zukov aveva salvato nel 1941 dalla vendetta di Stalin. La fascia difensiva era formata da sei linee all’interno del saliente, con altre due cinture difensive davanti alle armate della riserva. La popolazione del saliente ebbe l’ordine di restare dove si trovava: sarebbe stata utilizzata per aiutare l’esercito a scavare più di 5000 chilometri di trincee, tracciate secondo uno schema incrociato per consentire ai difensori di spostarsi facilmente da una posizione di fuoco all’altra. Il saliente era irto di trappole anticarro, realizzate con tronchi tagliati dalle foreste della zona. Fu disposto uno schieramento di artiglieria e di cannoni anticarro, tale che i corazzati tedeschi si sarebbero trovati ad affrontare una vera e propria “barriera di fuoco”. Furono anche interrate oltre 400 000 mine. Si eressero dighe sui torrenti, in modo da poter provocare inondazioni che arrestassero i carri armati nemici. Si distese un gigantesco percorso a ostacoli per chilometri e chilometri attraverso i ricchi terreni coltivati e i frutteti. Nella regione furono sparpagliate centocinquanta piste di volo, e si costruirono anche cinquanta finti aeroporti per attirare l’attenzione del nemico. Quando tutto fu pronto, 1336000 uomini, 3444 carri armati, 2900 aerei e 19000 cannoni furono portati in posizione. Come ricordò Vasilevskij, «si trattò di un lavoro enorme, davvero titanico». Sull’altro lato del fronte erano schierati 900 000 soldati tedeschi organizzati in 50 divisioni, con 2700 carri armati, 2000 aerei e oltre 10000 cannoni. I due avversari si accingevano a combattere la più grande battaglia classica della storia.
Entrambi i contendenti si rendevano conto che lo scontro imminente sarebbe stato decisivo. L’Armata Rossa aveva stipato nella zona del combattimento il 40 percento dei suoi uomini e il 75 percento dei mezzi corazzati: la perdita di quelle forze si sarebbe tradotta in un disastro. Per Hitler il successo dell’operazione Cittadella era cruciale: per questo motivo aveva rinviato la data d’inizio finché non si sentì più sicuro della forza tedesca. Il dittatore della Germania era ormai costretto a cercare un equilibrio tra la guerra a Est e le esigenze di uno sforzo bellico più vasto: a partire dall’estate del 1943 la Germania subì pesanti bombardamenti aerei da parte degli inglesi e degli americani, che obbligarono a trattenere in patria quantità sempre maggiori di uomini, aerei e cannoni altrimenti destinati al fronte orientale. Nel Mediterraneo la mossa nordafricana era fallita e, alla fine, le forze dell’Asse erano state sconfitte in Tunisia a maggio, con la resa di 150 000 soldati tedeschi e italiani. Mentre preparavano l’operazione Cittadella, i comandanti tedeschi sapevano che gli Alleati occidentali avrebbero potuto utilizzare l’Africa settentrionale come trampolino di lancio per aprire un fronte meridionale in Italia o nei Balcani. A Est l’iniziativa era ancora in mano alle forze tedesche, ma si sarebbe completamente dissolta con una disfatta nel corso dell’estate.
L’esercito sovietico doveva sapere soprattutto una cosa: quando sarebbe cominciato l’attacco tedesco? In maggio cominciarono a comparire forti indizi di un’offensiva imminente. I fronti difensivi sovietici non erano ancora completi, ma fu proclamato lo stato di massima allerta. Tuttavia Hitler rimandò l’attacco, previsto per il 3 maggio, al 12 giugno. L’alto comando sovietico divenne sempre più nervoso. Furono lanciati attacchi aerei contro le posizioni e gli aeroporti tedeschi per sconvolgerne i preparativi. Ogni nota informativa dello spionaggio provocava un nuovo allarme: era stato previsto un attacco tra il 10 e il 12 maggio, poi tra il 19 e il 26 maggio. Stalin diventava nervoso e irritabile ogni volta che un allarme scemava per essere subito sostituito da un altro. Era difficile resistere alle sue insistenze per l’azione. Le informazioni che cominciavano a giungere dall’estero ripresentavano lo stesso quadro contraddittorio che Stalin si era trovato di fronte nel 1941.
Una delle fonti era una rete spionistica comunista in Svizzera, che aveva indicato un’offensiva intorno al 12 giugno, la data corretta, ma poi cominciò a passare disinformazioni tedesche che indicavano un rinvio dell’operazione Cittadella. Lo spionaggio sovietico aveva accesso al sistema di decrittaggio inglese Ultra dei messaggi tedeschi tramite due fonti. Una era la spia comunista John Cairncross (il “quinto uomo” della rete spionistica di Cambridge, formata anche da Burgess, Philby, Blunt e Maclean), che era riuscito a ottenere un incarico presso il centro inglese di decifrazione e codifica di Bletchley Park. Nei giorni di riposo Cairncross andava a Londra con un’automobile messagli a disposizione dal reclutatore del NKVD, Anatolij Gorskij, per passargli i particolari sugli aeroporti della Luftwaffe situati sul fronte orientale. Grazie alle sue informazioni furono compite incursioni preventive contro le basi tedesche, distruggendo cinquecento aerei della Luftwaffe con tre ondate di attacchi. Cairncross però non riuscì a sopportare lo stress continuo cui era sottoposto e abbandonò l’incarico prima dell’inizio della battaglia. Anche il governo britannico trasmise notizie dettagliate sull’operazione Cittadella, compreso il suo nome in codice, il 30 aprile, ma in seguito intercettò alcuni discorsi dell’ambasciatore giapponese a Berlino, Hiroshi Oshima, per far credere a Mosca che l’operazione Cittadella fosse stata abbandonata.
Più il tempo passava, più il ritardo tedesco sembrava sconcertante. Per gli uomini del saliente di Kursk, quell’attesa significò settimane oscillanti tra il tormento psicologico dello stato d’allarme e periodi di noiosa routine militare. Più di due mesi di attesa misero a dura prova il morale dei soldati, consapevoli del prossimo arrivo di una tempesta che avrebbe travolto molti di loro. Nell’ultima settimana di giugno i servizi informazioni interni dell’esercito scoprirono un improvviso cambiamento: dall’intercettazione dei messaggi e dai soldati tedeschi sorpresi dalle pattuglie sovietiche e fatti prigionieri, risultò evidente che il nemico si stava preparando ai posti di combattimento. Fu proclamato lo stato di allarme per un attacco previsto tra il 3 e il 6 luglio. Il 2 luglio le forze sovietiche furono poste in stato di massimo allarme.
Poi, improvvisamente, il 4 luglio ogni attività sul fronte nemico cessò. Calò un silenzio insopportabile. Un prigioniero, catturato sul fronte meridionale del saliente, confessò che l’offensiva tedesca era stata fissata per l’alba del 5 luglio. Il fronte di Voronez del generale Vatutin, che teneva la linea davanti a Belgorod e Charkov, ebbe bordine di iniziare un bombardamento d’artiglieria per creare scompiglio nel fronte tedesco. A nord, dove la linea era tenuta dal fronte centrale di Rokossovskij, Zukov si trovava presso il quartier generale dell’esercito per coordinare la battaglia. Verso le due del mattino del 5 luglio giunse la notizia che un prigioniero del genio della fanteria tedesca aveva comunicato l’ora precisa dell’attacco tedesco: le tre del mattino. Senza aspettare l’ordine di Stalin, Zukov ordinò all’aeronautica e all’artiglieria di attaccare. Nessuno aveva potuto dormire: quando Zukov telefonò a Mosca, lo stato d’ansia di Stalin era evidente. Alle due e mezzo del mattino si poteva sentire un «terribile rimbombo»: il rumore dei cannoni, dei razzi e delle bombe si fondeva, all’orecchio di Zukov, in un’unica «sinfonia infernale».
I comandanti tedeschi furono colti completamente di sorpresa. Dapprima pensarono di essere vittime di un’offensiva sovietica della quale non avevano avuto il minimo sentore. Poi, quando fu chiaro che si trattava solo di un attacco di disturbo, fu diramato l’ordine di procedere. L’operazione Cittadella fu scatenata alle quattro e mezzo del mattino del 5 luglio. La 9a armata corazzata del feldmaresciallo Walther Model, appoggiata dai carri armati pesanti Tiger e dai nuovi cannoni semoventi Ferdinand, avanzò in forze lungo uno stretto corridoio per aprirsi un varco nella muraglia fortificata di Zukov, ma incappò in una rete di fuoco difensivo quale mai l’esercito tedesco aveva incontrato. I carri armati e gli uomini rimasero inchiodati sulle loro posizioni in attesa che gli aerei aprissero loro una strada: riuscirono ad avanzare lentamente solo per pochi metri alla volta. Le centinaia di ostacoli posti sul campo erano rinforzati da commando mobili anticarro, armati con bottiglie di benzina e rudimentali congegni di disturbo, che si lanciavano in attacchi suicidi contro i carri armati nemici per immobilizzarli, in attesa che i cannoni anticarro potessero essere portati nella posizione adatta a colpire i carri armati tedeschi nei punti più vulnerabili, di solito le fiancate e la parte posteriore. I soldati si nascondevano in buche nel terreno e lanciavano granate sotto i veicoli che passavano sopra di loro. Le pesanti protezioni dei carri armati e dei cannoni semoventi tedeschi obbligavano i sovietici a ingaggiare combattimenti a distanza ravvicinata. Alla fine del primo giorno, gli attaccanti erano riusciti a conquistare poco più di sei chilometri di terreno.
Il 6 luglio Model mise in campo altri corazzati: una forza costituita da 3000 cannoni e 1000 carri armati attaccò su un fronte largo appena dieci chilometri. Lo spostamento di riserve corazzate dal-l’interno del saliente consentì di sostenere l’attacco e di infliggere forti perdite al nemico. Il giorno seguente fu decisivo per le sorti dello scontro. Il 7 luglio, dopo un’avanzata di una decina di chilometri, i carri armati tedeschi si diressero verso il villaggio di Ponyri. La battaglia era incessante: ben presto il rombo dei cannoni e delle bombe e il fumo denso resero molto difficile sia ascoltare che vedere. Le forze corazzate tedesche si lanciarono contro la linea difensiva principale e là si fermarono. Il giorno dopo i tedeschi scelsero un altro villaggio, Olchovatka, come nuova direttrice dello sfondamento. La concentrazione di carri armati sulle strette vie di accesso al villaggio costituì un facile bersaglio per i bombardieri in picchiata sovietici e per l’intenso e preciso fuoco incrociato dei cannoni anticarro e dell’artiglieria pesante. Il 9 luglio le forze tedesche del settore nord raggiunsero il limite della loro avanzata. Zukov disse a Stalin che era giunto il momento: la controffensiva nel settore settentrionale fu fissata per il 12 luglio. Appena fu lanciata, l’attacco tedesco crollò. Le divisioni di Rokossovskij, rinforzate da un flusso di rifornimenti e uomini trasportati lungo nuove linee ferroviarie, realizzate apposta per quella campagna, respinsero gli attaccanti oltre i fossati e le trincee che avevano superato la settimana precedente, lasciando dietro di sé i macabri resti di una battaglia perduta.
Sul fronte meridionale del saliente la situazione era meno incoraggiante. Anche se le informazioni raccolte dai sovietici sulle intenzioni tedesche erano state più complete rispetto all’anno precedente, la distribuzione delle forze tedesche era stata decisamente fraintesa. Il peso principale dell’attacco tedesco era stato previsto a nord, dove erano state schierate le difese sovietiche più forti. Invece i tedeschi erano più potenti a sud. La 4a armata corazzata del generale Hermann Hoth si lanciò contro il meno difeso dei due fronti sovietici. L’Armata Rossa combattè per resistere al nemico con la stessa frenetica energia dimostrata a nord, ma il generale Vatutin non disponeva del sostegno delle forze corazzate e della densità del fuoco d’artiglieria con cui Rokossovskij aveva intrappolato Model. Hoth aveva ai suoi ordini nove divisioni corazzate: la crema delle forze armate tedesche, capeggiate dai tre reparti più potenti dell’esercito, le divisioni corazzate delle SS Testa di morte, Reich e Guardie di Adolf Hitler. Esse colpirono con tanta forza che, in due giorni di feroci combattimenti, si spinsero per oltre trenta chilometri verso la strada Obojan-Kursk, un elemento chiave dell’offensiva. Nel suo quartier generale, Manstein attendeva con crescente fiducia il crollo del fronte nemico, così come era già successo molte altre volte.
Questa volta, però, l’avversario sovietico restò saldamente al suo posto. Il 7 luglio le divisioni delle SS raggiunsero la linea difensiva principale, dopo un estenuante assalto contro quelli che erano solo ostacoli preliminari. Di fronte a loro si trovava ora una forza al completo: la la armata corazzata. Il ritmo dell’avanzata si ridusse a un lento arrancare. Il 9 luglio le divisioni corazzate si raggrupparono in un potente ariete blindato e si aprirono un nuovo varco nella linea del fronte. Attraversarono il piccolo fiume Psèl, l’ultimo ostacolo naturale tra le linee tedesche e Kursk. I reparti avanzati della divisione Testa di morte crearono una piccola testa di ponte, dove si trincerarono: fu quello il punto più distante che riuscirono a raggiungere, l’ultimo respiro dell’offensiva tedesca iniziata due anni prima. Incapace di compiere altri progressi in quella direzione, Hoth spostò il peso del suo attacco a nordest, verso il piccolo nodo ferroviario di Prochorovka.
I cinque giorni a partire dal 9 luglio furono i più critici di tutta la battaglia di Kursk. I corpi corazzati delle SS si riorganizzarono, preparandosi per quella che si riteneva la manovra decisiva contro le forze sovietiche, indebolite dalle pesanti perdite in uomini e macchine, testimoniate dai corpi carbonizzati e dai cannoni contorti che ricoprivano il terreno annerito. Oltre cinquecento carri armati pesanti, tra i quali molti Tiger e Panther, più potenti dei T-34, si lanciarono in avanti. Il comando sovietico reagì facendo affluire parte delle preziose riserve conservate nelle lontane retrovie e destinate al contrattacco decisivo. Il 6 luglio Stalin telefonò personalmente al comandante della 5a armata corazzata della Guardia, generale Pavel Rotmistrov, ordinandogli di avanzare verso Prochorovka: tre giorni di estenuante marcia forzata per oltre trecentosettanta chilometri. Era il compleanno di Rotmistrov, che aveva organizzato una cena per l’occasione. Al loro arrivo, gli ospiti trovarono sulla tavola solo carte geografiche. Rotmistrov fornì i dettagli sul trasferimento, poi i presenti brindarono alla sua salute con lo champagne catturato a un reparto tedesco. All’una e mezzo del mattino del 7 luglio la 5a armata corazzata della Guardia cominciò a muoversi.
II viaggio fu difficile. L’armata doveva marciare giorno e notte, nonostante la minaccia dei bombardieri in picchiata tedeschi Ju-87 armati con cannoni anticarro, che già avevano seminato la distruzione tra le forze corazzate dell’Armata Rossa. Gli aerei sovietici pattugliavano la zona dall’alto per tenere a bada i velivoli avversari. Rotmistrov viaggiava con i suoi uomini, su autocarri convertiti in quartier generale, controllando via radio l’intero convoglio che avanzava come un’enorme falange su un fronte di oltre trenta chilometri. Il comandante del fronte della riserva, il generale Konev, seguiva in aereo tenendosi a distanza di sicurezza, per osservare i rinforzi in azione. Era la prima volta che un’intera armata corazzata si spostava con i suoi mezzi invece che per ferrovia. La situazione peggiorò in fretta: già alle otto del mattino il caldo divenne insopportabile, e il fiume senza fine di veicoli sollevava una densa polvere grigia che copriva gli uomini, i mezzi e i cavalli con uno strato di sporcizia. I soldati furono presto inzuppati di sudore e oppressi da una sete soffocante. Quel trasferimento rappresentò un collaudo straordinario per la robustezza e l’affidabilità dei veicoli sovietici: quando l’armata si fermò a un centinaio di chilometri dal fronte, il 9 luglio, era ancora una forza combattente intatta. Quel giorno Rotmistrov ricevette l’ordine di schierare le sue forze in assetto da combattimento e di coprire la distanza rimanente in un’unica tappa. Il 10 luglio le truppe, esauste, raggiunsero il fronte.
A Rotmistrov era stato ordinato di prepararsi a una grande battaglia di carri armati, ma non poteva immaginare che cosa lo stava aspettando. In effetti doveva usare i suoi T-34 nell’equivalente corazzato di uno scontro corpo a corpo contro i superiori carri armati Tiger e i cannoni semoventi Ferdinand del nemico. Negli scontri ravvicinati i T-34, grazie alla loro superiore manovrabilità, potevano attaccare i corazzati tedeschi sui lati e alle spalle e, proprio per la mancanza di spazio, potevano infliggere loro gravi danni. Furono necessari due giorni per trincerare l’artiglieria e approntare i carri armati. La pressione tedesca cresceva a ovest e a est di Prochorovka e si fecero sforzi disperati per resistere sui fianchi, impedendo ai tedeschi di sfondare prima che l’armata di riserva fosse pronta. Zukov ordinò a dieci reggimenti d’artiglieria di allestire reparti anticarro intorno alla città. Stalin ordinò a Vasilevskij, capo di stato maggiore dell’Armata Rossa, di assumere personalmente il comando della battaglia. Il mattino del 12 luglio si fronteggiarono due enormi forze corazzate: 850 carri sovietici contro 600 tedeschi. Fu il più grande scontro di carri armati della storia.
Rotmistrov andò in un rifugio ricavato in un frutteto che dominava il campo di battaglia. Sotto di lui si stendeva un grande campo di grano, illuminato dalla luce dorata del sole nascente. Più lontano c’erano i boschi dove, come sapeva, si nascondevano le forze corazzate tedesche. Le pattuglie mandate in esplorazione avevano sentito il rombo di centinaia di motori durante la notte, quando le divisioni delle SS si erano messe in posizione. In quel momento Finterà scena era stranamente silenziosa, eccezion fatta per il brusio delle linee di comunicazione. Alle 6.30 esatte apparve il primo aereo tedesco. Mezz’ora dopo i bombardieri tedeschi, ammassati come uno sciame di inquietanti insetti dal ronzio sempre più forte e minaccioso via via che si avvicinavano, scaricarono le loro bombe sui boschi e sui villaggi che circondavano Prochorovka. Prima di portare a termine il loro lavoro, però, furono attaccati da moltissimi caccia sovietici. Gli aerei di entrambe le parti cominciarono a precipitare e le esplosioni di quelli colpiti sostituirono i tonfi delle bombe. I bombardieri ritornarono alla base.
Al loro posto arrivarono ondate di bombardieri e di caccia sovietici, che inondarono i boschi antistanti di bombe e razzi. Quindi l’artiglieria sovietica aprì il fuoco, e sui ripari delle truppe delle SS cadde una pioggia ininterrotta di bombe e granate. Infine, alle 8.30, Rotmistrov diede l’ordine con la parola in codice per l’attacco: «acciaio, acciaio» (stalin in russo). L’ordine percorse come un fulmine l’intero schieramento. I carri T-34 uscirono dai loro nascondigli tra i campi. Nello stesso momento, come se «acciaio» fosse stata anche la loro parola d’ordine, i carri armati e i cannoni semoventi tedeschi cominciarono a uscire dal limite dei boschi. In un’area di meno di otto chilometri quadrati, più di mille carri armati si lanciarono gli uni contro gli altri. Nessuno dei due contendenti aveva programmato apposta uno scontro frontale, ma era ormai inevitabile. Raramente i carri armati si erano impegnati in battaglie campali contro altri carri armati ma ora, come due orde preistoriche, i corazzati si andavano incontro, predatori feroci contro predatori feroci.
La battaglia che ne seguì potè essere osservata solo con grande difficoltà dalla collina sovrastante, dove stava Rotmistrov. Presto il fumo e la polvere oscurarono la scena. Nel corso della giornata un’intensa pioggia sferzante e violenti temporali aggiunsero un elemento naturale al dramma che si stava svolgendo. In breve tempo i carri armati si mescolarono talmente tra loro che entrambe le parti furono costrette a interrompere il fuoco dell’artiglieria e le incursioni aeree. I T-34, dotati di cannoni meno potenti di quelli degli avversari, si avvicinavano il più possibile ai Tiger e ai Panther per riuscire a danneggiarli. Quando esaurivano le munizioni, speronavano i carri nemici. Quando un carro armato si bloccava, i corazzati nemici si avvicinavano, ma gli equipaggi del mezzo con i cingoli o le ruote rotti continuavano a combattere finché avevano munizioni; una volta esauriti i colpi, i soldati sovietici saltavano a terra e lanciavano bottiglie di benzina o bombe a mano. Fu una lotta quasi del tutto priva di un ordine qualsiasi. Entrambe le parti subirono pesanti perdite. Alla fine della giornata sul campo giacevano più di settecento carri armati colpiti e distrutti, colti dalla morte in posizioni assurde con gli scafi bucati, i cannoni di traverso, le torrette asportate dalla forza dell’esplosione delle munizioni di bordo o da un colpo fortunato. Accanto a loro giacevano migliaia di corpi bruciati o ancora in fiamme. Dopo otto ore entrambe le parti si fermarono. C’erano incendi ovunque: nelle fattorie, nei villaggi, nei prati e negli orti, anneriti dalle infinite esplosioni. Quando finalmente Rotmistrov potè lasciare il suo rifugio, quella sera, la pioggia era cessata. L’aria stessa sembrava bruciata. Dopo il tuono assordante della battaglia, potè udire il suono smorzato delle operazioni di recupero e dei nuovi preparativi. Piccole pattuglie percorrevano il campo di battaglia in cerca dei propri feriti. I soldati tedeschi facevano esplodere i carri armati che non potevano essere rimorchiati per le riparazioni. Un flusso continuo di munizioni, carburante e rifornimenti giungeva a bordo degli autocarri. Il genio stendeva nuovi campi minati. Rotmistrov si addormentò poco prima dell’alba e fu svegliato alcune ore dopo dal coro mattutino delle bombe in arrivo.
La battaglia non era finita il primo giorno, ma l’esito era ormai meno incerto: le perdite tedesche erano state troppo pesanti per consentire uno sfondamento decisivo. Le forze sovietiche avevano retto all’attacco tedesco, ma non avevano fatto grandi progressi. Furono respinti alcuni attacchi sui fianchi, condotti da massicce formazioni tedesche a destra e a sinistra dello schieramento. Quando gli attacchi ricominciarono, il mattino seguente, non ci fu un’altra mischia carro contro carro. Le forze tedesche misero alla prova le difese sovietiche per trovare un varco, ma Vasilevskij e Vatutin mossero i loro reparti con la rapidità necessaria per smorzare gli assalti nemici. Altri due giorni di combattimenti dimostrarono che l’agognato sfondamento non era alla portata delle forze tedesche. Il 15 luglio la battaglia finalmente si concluse, con le due parti schierate all’incirca sulle posizioni che avevano all’inizio. Le divisioni delle SS erano devastate: la divisione Testa di morte, che aveva sostenuto l’urto della battaglia a Prochorovka, fu ritirata dal fronte. L’armata corazzata tedesca aveva perduto più della metà degli uomini e la metà dei veicoli. Alcune divisioni si erano ridotte a tal punto da avere solo diciassette carri armati ancora utilizzabili. Anche le perdite sovietiche furono elevate: U giorno dopo lo scontro dei carri armati, a Rotmistrov era rimasta solo la metà delle sue forze, sebbene i rifornimenti continuassero ad arrivare da altre parti del fronte.
La grande battaglia dei carri armati influenzò profondamente gli alti comandi russi. Il maresciallo Zukov arrivò il 13 luglio per controllare di persona i danni. Fu condotto attraverso il desolato scenario della battaglia con Rotmistrov e Nikita Chruscèv, allora rappresentante del Consiglio Militare al fronte. Fece fermare l’auto più volte per osservare i carri armati: masse metalliche strette contro altre masse metalliche. Rotmistrov osservò nel suo ospite uno sconforto insolito: l’uomo che spostava intere armate sul tavolo delle carte era «sconvolto dalla scena» della battaglia reale. Quando, il 12 luglio, Vasilevskij osservò la battaglia tra i corazzati che si svolgeva sotto i suoi occhi, ne ebbe, come ricordò più tardi, «un’impressione indelebile». Quegli scontri tra carri armati «non ebbero uguali in tutta la guerra». Settimane dopo la battaglia l’intera regione, lunga cinquanta chilometri e larga altrettanto, era ancora «uno spaventoso deserto», come scrisse un corrispondente di guerra; a molti chilometri di distanza si poteva ancora avvertire nell’aria il fetore delle centinaia di cadaveri insepolti e gonfi per la calura estiva. Là, a Kursk, era possibile comprendere l’espressione ossessionante coniata da II’ja Ehrenburg per descrivere quell’estate: «guerra profonda».
La battaglia di Kursk pose fine a qualunque realistica prospettiva di vittoria tedesca a Est. Pochi giorni prima dello scontro di Prochorovka una forza angloamericana aveva invaso l’Italia, obbligando Hitler a trasferire preziosi reparti dell’esercito dal fronte orientale.
Il 13 luglio l’operazione Cittadella fu ufficialmente annullata e l’armata corazzata di Hoth ricevette l’ordine di ritirarsi combattendo fino alle linee che aveva tenuto prima del 5 luglio.41 Fu quindi attivata la seconda fase del piano di Zukov e Vasilevskij. Sembra che i tedeschi non sospettassero affatto la possibilità che i russi potessero avere altri obiettivi oltre all’arresto dell’attacco avversario; d’altra parte i comandanti tedeschi credevano che, dopo le enormi perdite subite nel corso della difesa, i sovietici non avessero alcuna seria possibilità di organizzare una controffensiva. La vera importanza della battaglia di Kursk non stava però nella risoluta difesa del saliente, ma nell’offensiva che ne seguì.
L’operazione Kutuzov scattò il 12 luglio sul limite settentrionale del saliente. Questa volta toccò alle forze sovietiche attaccare un fronte difeso saldamente, in cui si succedevano in profondità campi minati, trincee, reticolati e bunker. L’obiettivo era la distruzione della concentrazione di forze tedesche intorno a Orèl e Brjansk, scardinando l’intero fronte centrale nemico. L’attacco incontrò una forte resistenza, ma conseguì anche un grande successo. Le forze d’urto erano state concentrate su un fronte ristretto per aprire un piccolo varco nella linea difensiva tedesca. Con una potente copertura aerea, un assalto combinato di fanteria e carri armati fu seguito da un’intera armata corazzata, che dilagò attraverso il varco e si aprì a ventaglio per distruggere le postazioni difensive avversarie: un attacco che riprendeva parecchi dei concetti formulati dieci anni prima da Tuchacevskij. Il 5 agosto le forze russe riconquistarono Orèl, il 18 agosto la città di Brjansk tornò in mani sovietiche. La controffensiva a sud, denominata in codice operazione Rumjantsev, era stata posta sotto il diretto controllo di Zukov. L’attacco fu sferrato il 3 agosto, utilizzando le riserve del fronte della steppa per rinforzare le forze ormai stanche che avevano respinto l’attacco tedesco in luglio. L’obiettivo era la città di Charkov, dove le forze armate sovietiche erano state sconfitte due volte da abili contrattacchi tedeschi. L’Armata Rossa conquistò la città di Belgorod il 5 agosto ma, sulla via di accesso a Charkov, le divisioni corazzate tedesche, che nel frattempo si erano riorganizzate, sferrarono un contrattacco contro i fianchi delle armate corazzate sovietiche, minacciando di ripetere i precedenti successi. Questa volta, però, le forze sovietiche erano schierate in modo molto più efficace: l’assalto fu parato e Charkov cadde il 28 agosto.
In tutta la Russia si diffuse un’atmosfera di crescente euforia. La vittoria spinse Stalin a compiere quella che doveva rimanere la sua unica visita a un fronte sovietico. Il 1° agosto lasciò la sua dacia di Kuntsevo a bordo di un treno speciale. La locomotiva, le carrozze e le piattaforme erano state mimetizzate con rami d’albero. Giunse al fronte occidentale, ormai distante molti chilometri da Mosca, dove trascorse una notte priva di particolari avvenimenti. Il giorno successivo si trasferì sul fronte di Kalinin, a nord, dove fece sosta in una capanna di contadini (la visita è ancora ricordata da una targa com-memorativa). Non incontrò né ufficiali né soldati e il giorno dopo tornò a Mosca.42 Le sue intenzioni possono essere solo ipotizzate: forse sperava di impressionare il suo entourage, anche se una dimostrazione di tale modestia non sarebbe certo servita allo scopo; forse era davvero a disagio per aver mandato un numero enorme di suoi concittadini a combattere in zone che lui non conosceva neppure. Avendo accusato così tante persone di vigliaccheria, aveva buoni motivi per evitare di essere tacciato a sua volta della stessa infamia. Qualunque fossero le sue intenzioni, presto sfruttò al meglio quella visita. Pochi giorni dopo scrisse a Roosevelt per spiegare il suo ritardo nel rispondere a un precedente messaggio del presidente statunitense: «Devo visitare personalmente i diversi settori del fronte sempre Più spesso.. .».43 Due giorni dopo il suo ritorno ordinò una salva per la vittoria a Mosca, per salutare la liberazione di Orèl e Belgorod. A mezzanotte del 5 agosto centoventi cannoni spararono dodici salve.
I comandanti sovietici si trovavano ad affrontare una sfida difficilissima, che non ammetteva errori. In precedenza, nel 1941 e nel 1942, avevano sbagliato le previsioni sulla potenza e sulla direzione degli attacchi tedeschi. Questa volta non potevano permettersi di sbagliare ancora. Gli ufficiali dello stato maggiore si misero nei panni di Hitler. Dalle informazioni a disposizione dello spionaggio, sapevano che le forze tedesche non erano ancora pronte a lanciare una campagna su vasta scala. E dalla concentrazione di forze tedesche intorno a Orèl, a nord del saliente di Kursk, e a Charkov a sud, sembrò chiaro che l’attacco principale sarebbe avvenuto in quel settore. Con l’esperienza ormai biennale della pianificazione bellica tedesca, ipotizzarono correttamente che l’attacco sarebbe stato lanciato da due forti offensive corazzate per tagliare il saliente alle loro sfalle, circondando le armate sovietiche schierate nel saliente stesso. Zukov supponeva che l’obiettivo finale fosse Mosca. Nessuno si mostrò contrario a questa valutazione della situazione. Per la prima volta l’alto comando sovietico aveva visto giusto.20
La decisione più difficile riguardava il tipo di risposta da dare. Stalin seguì il suo istinto e chiese un’offensiva preventiva prima che le linee tedesche potessero rinsaldarsi. Zukov espresse un parere diverso, proponendo una difesa in profondità che assorbisse l’urto delle ali destra e sinistra tedesche, logorando le forze nemiche prima di assestare il colpo finale con ingenti forze di riserva scagliate in avanti dalle retrovie: la stessa strategia proposta da alcuni ufficiali superiori nel 1941. L’esito di quella discussione mostrò uno Stalin molto diverso dal solito. L’8 aprile 1943 si trovava in riunione con lo stato maggiore quando arrivò il rapporto di Zukov che rifiutava il piano di Stalin per un’«offensiva preventiva» e confermava le informazioni dello spionaggio, secondo le quali l’obiettivo tedesco era il saliente di Kursk. Stalin si astenne dall’esprimere giudizi e, come ricordò Stemenko, non fece neppure ricorso alle solite accuse di disinformazione e inganno contro le informazioni dello spionaggio sulle intenzioni nemiche, come era successo nel 1941 e nel 1942. Convocò invece una riunione per il 12 aprile, nel corso della quale ascoltò attentamente l’analisi delle intenzioni tedesche, prese in considerazione i rapporti dei comandanti sulla linea del fronte che, con una sola eccezione, appoggiavano la scelta di Zukov, e infine approvò il piano di Zukov. Si agitò solamente quando qualcuno disse che il probabile obiettivo tedesco era l’accerchiamento di Mosca: diede allora ordine a Zukov di organizzare una linea di difesa insuperabile lungo il fronte centrale intorno a Kursk.
L’insolita disponibilità di Stalin ad accettare il parere degli esperti quasi sicuramente salvò l’Armata Rossa da un’altra campagna estiva disastrosa. Prevalse il piano di Zukov (sempre che fosse effettivamente suo). Come nel caso della controffensiva di Stalingrado, restano infatti ancora alcuni dubbi sulla paternità dell’idea che fu alla base della battaglia di Kursk. L’importante comunque è che Zukov, qualunque fosse il suo debito in questo senso nei confronti dei comandanti dei fronti locali, riuscì a convincere Stalin che quella era la cosa giusta da fare, anche se Stalin era di diversa opinione. Il piano rappresentava un ritorno alle tradizioni del pensiero militare sovietico (in effetti russo), espresso dal concetto di «battaglia in profondità». Il fronte difensivo fu preparato con una profondità e un’accuratezza un tempo negate alle forze armate sovietiche: fu progettato per utilizzare al massimo la potenza di fuoco e per consentire alle forze difensive di muoversi con efficacia per contrastare la spinta tedesca. La costituzione di riserve nelle retrovie per compiere il contrattacco pose allo stato maggiore difficili problemi di coordinazione e di organizzazione dei tempi. L’intera operazione si basava su una precisa gestione del campo di battaglia più vasto che un comandante sovietico avesse mai controllato in passato.
I preparativi cominciarono immediatamente. Il peso maggiore della difesa cadde sul fronte centrale e sul fronte di Voronez, che occupavano i fianchi nord e sud del saliente. Il fronte centrale era comandato dal generale Konstantin Rokossovskij, l’uomo che aveva eliminato la sacca di Stalingrado e che fu uno dei più brillanti comandanti di entrambe le parti in guerra. Come Zukov, verso il quale nutriva una forte rivalità, anch’egli proveniva da una famiglia di operai russi. Figlio di un macchinista delle ferrovie, restò orfano all’età di quattordici anni e cominciò a lavorare come muratore. Andò sotto le armi nel 1914, fu promosso sergente di cavalleria e si unì all’Armata Rossa nel 1918, iniziando una carriera di ufficiale di cavalleria che lo avrebbe portato a comandare un corpo nel 1936. Il risalto di questa carica bastò a farlo incappare nella rete delle epurazioni. Passò tre anni in prigione: un’esperienza che gli lasciò un profondo disgusto per gli ufficiali politici che si aggiravano intorno alle forze armate in cerca delle loro prede. Era un uomo forte e schietto, uno di quelli che non esitavano a contraddire Stalin, e anche Zukov, quando riteneva che fosse necessario. Il cornandante del fronte di Voronez, Nikolaj Vatutin, era più vicino a Zukov ed era stato suo vice nel 1941. Aveva prestato servizio come ufficiale di stato maggiore fino a quando gli fu assegnato il comando del fronte principale nella controffensiva di Stalingrado. Aveva svolto un ruolo centrale nella pianificazione di quella campagna e, su sollecitazione di Zukov, era stato trasferito al comando del fronte di Kursk per la sua provata capacità strategica: uno dei molti comandanti superiori che si erano guadagnati i galloni secondo la tradizione russa, in virtù dei successi sul campo.
Vatutin e Rokossovskij ammassarono sette armate nel saliente intorno a Kursk. A nord e a sud del saliente il fronte di Brjansk e quello sudoccidentale furono rinforzati per fornire il trampolino di lancio della controffensiva. Le forze della riserva furono concentrate nel fronte della steppa, a duecentocinquanta chilometri dalla linea del fronte: un’armata corazzata, due armate di fanteria e la 5a armata aerea al comando del generale Konev, che Zukov aveva salvato nel 1941 dalla vendetta di Stalin. La fascia difensiva era formata da sei linee all’interno del saliente, con altre due cinture difensive davanti alle armate della riserva. La popolazione del saliente ebbe l’ordine di restare dove si trovava: sarebbe stata utilizzata per aiutare l’esercito a scavare più di 5000 chilometri di trincee, tracciate secondo uno schema incrociato per consentire ai difensori di spostarsi facilmente da una posizione di fuoco all’altra. Il saliente era irto di trappole anticarro, realizzate con tronchi tagliati dalle foreste della zona. Fu disposto uno schieramento di artiglieria e di cannoni anticarro, tale che i corazzati tedeschi si sarebbero trovati ad affrontare una vera e propria “barriera di fuoco”. Furono anche interrate oltre 400 000 mine. Si eressero dighe sui torrenti, in modo da poter provocare inondazioni che arrestassero i carri armati nemici. Si distese un gigantesco percorso a ostacoli per chilometri e chilometri attraverso i ricchi terreni coltivati e i frutteti. Nella regione furono sparpagliate centocinquanta piste di volo, e si costruirono anche cinquanta finti aeroporti per attirare l’attenzione del nemico. Quando tutto fu pronto, 1336000 uomini, 3444 carri armati, 2900 aerei e 19000 cannoni furono portati in posizione. Come ricordò Vasilevskij, «si trattò di un lavoro enorme, davvero titanico». Sull’altro lato del fronte erano schierati 900 000 soldati tedeschi organizzati in 50 divisioni, con 2700 carri armati, 2000 aerei e oltre 10000 cannoni. I due avversari si accingevano a combattere la più grande battaglia classica della storia.
Entrambi i contendenti si rendevano conto che lo scontro imminente sarebbe stato decisivo. L’Armata Rossa aveva stipato nella zona del combattimento il 40 percento dei suoi uomini e il 75 percento dei mezzi corazzati: la perdita di quelle forze si sarebbe tradotta in un disastro. Per Hitler il successo dell’operazione Cittadella era cruciale: per questo motivo aveva rinviato la data d’inizio finché non si sentì più sicuro della forza tedesca. Il dittatore della Germania era ormai costretto a cercare un equilibrio tra la guerra a Est e le esigenze di uno sforzo bellico più vasto: a partire dall’estate del 1943 la Germania subì pesanti bombardamenti aerei da parte degli inglesi e degli americani, che obbligarono a trattenere in patria quantità sempre maggiori di uomini, aerei e cannoni altrimenti destinati al fronte orientale. Nel Mediterraneo la mossa nordafricana era fallita e, alla fine, le forze dell’Asse erano state sconfitte in Tunisia a maggio, con la resa di 150 000 soldati tedeschi e italiani. Mentre preparavano l’operazione Cittadella, i comandanti tedeschi sapevano che gli Alleati occidentali avrebbero potuto utilizzare l’Africa settentrionale come trampolino di lancio per aprire un fronte meridionale in Italia o nei Balcani. A Est l’iniziativa era ancora in mano alle forze tedesche, ma si sarebbe completamente dissolta con una disfatta nel corso dell’estate.
L’esercito sovietico doveva sapere soprattutto una cosa: quando sarebbe cominciato l’attacco tedesco? In maggio cominciarono a comparire forti indizi di un’offensiva imminente. I fronti difensivi sovietici non erano ancora completi, ma fu proclamato lo stato di massima allerta. Tuttavia Hitler rimandò l’attacco, previsto per il 3 maggio, al 12 giugno. L’alto comando sovietico divenne sempre più nervoso. Furono lanciati attacchi aerei contro le posizioni e gli aeroporti tedeschi per sconvolgerne i preparativi. Ogni nota informativa dello spionaggio provocava un nuovo allarme: era stato previsto un attacco tra il 10 e il 12 maggio, poi tra il 19 e il 26 maggio. Stalin diventava nervoso e irritabile ogni volta che un allarme scemava per essere subito sostituito da un altro. Era difficile resistere alle sue insistenze per l’azione. Le informazioni che cominciavano a giungere dall’estero ripresentavano lo stesso quadro contraddittorio che Stalin si era trovato di fronte nel 1941.
Una delle fonti era una rete spionistica comunista in Svizzera, che aveva indicato un’offensiva intorno al 12 giugno, la data corretta, ma poi cominciò a passare disinformazioni tedesche che indicavano un rinvio dell’operazione Cittadella. Lo spionaggio sovietico aveva accesso al sistema di decrittaggio inglese Ultra dei messaggi tedeschi tramite due fonti. Una era la spia comunista John Cairncross (il “quinto uomo” della rete spionistica di Cambridge, formata anche da Burgess, Philby, Blunt e Maclean), che era riuscito a ottenere un incarico presso il centro inglese di decifrazione e codifica di Bletchley Park. Nei giorni di riposo Cairncross andava a Londra con un’automobile messagli a disposizione dal reclutatore del NKVD, Anatolij Gorskij, per passargli i particolari sugli aeroporti della Luftwaffe situati sul fronte orientale. Grazie alle sue informazioni furono compite incursioni preventive contro le basi tedesche, distruggendo cinquecento aerei della Luftwaffe con tre ondate di attacchi. Cairncross però non riuscì a sopportare lo stress continuo cui era sottoposto e abbandonò l’incarico prima dell’inizio della battaglia. Anche il governo britannico trasmise notizie dettagliate sull’operazione Cittadella, compreso il suo nome in codice, il 30 aprile, ma in seguito intercettò alcuni discorsi dell’ambasciatore giapponese a Berlino, Hiroshi Oshima, per far credere a Mosca che l’operazione Cittadella fosse stata abbandonata.
Più il tempo passava, più il ritardo tedesco sembrava sconcertante. Per gli uomini del saliente di Kursk, quell’attesa significò settimane oscillanti tra il tormento psicologico dello stato d’allarme e periodi di noiosa routine militare. Più di due mesi di attesa misero a dura prova il morale dei soldati, consapevoli del prossimo arrivo di una tempesta che avrebbe travolto molti di loro. Nell’ultima settimana di giugno i servizi informazioni interni dell’esercito scoprirono un improvviso cambiamento: dall’intercettazione dei messaggi e dai soldati tedeschi sorpresi dalle pattuglie sovietiche e fatti prigionieri, risultò evidente che il nemico si stava preparando ai posti di combattimento. Fu proclamato lo stato di allarme per un attacco previsto tra il 3 e il 6 luglio. Il 2 luglio le forze sovietiche furono poste in stato di massimo allarme.
Poi, improvvisamente, il 4 luglio ogni attività sul fronte nemico cessò. Calò un silenzio insopportabile. Un prigioniero, catturato sul fronte meridionale del saliente, confessò che l’offensiva tedesca era stata fissata per l’alba del 5 luglio. Il fronte di Voronez del generale Vatutin, che teneva la linea davanti a Belgorod e Charkov, ebbe bordine di iniziare un bombardamento d’artiglieria per creare scompiglio nel fronte tedesco. A nord, dove la linea era tenuta dal fronte centrale di Rokossovskij, Zukov si trovava presso il quartier generale dell’esercito per coordinare la battaglia. Verso le due del mattino del 5 luglio giunse la notizia che un prigioniero del genio della fanteria tedesca aveva comunicato l’ora precisa dell’attacco tedesco: le tre del mattino. Senza aspettare l’ordine di Stalin, Zukov ordinò all’aeronautica e all’artiglieria di attaccare. Nessuno aveva potuto dormire: quando Zukov telefonò a Mosca, lo stato d’ansia di Stalin era evidente. Alle due e mezzo del mattino si poteva sentire un «terribile rimbombo»: il rumore dei cannoni, dei razzi e delle bombe si fondeva, all’orecchio di Zukov, in un’unica «sinfonia infernale».
I comandanti tedeschi furono colti completamente di sorpresa. Dapprima pensarono di essere vittime di un’offensiva sovietica della quale non avevano avuto il minimo sentore. Poi, quando fu chiaro che si trattava solo di un attacco di disturbo, fu diramato l’ordine di procedere. L’operazione Cittadella fu scatenata alle quattro e mezzo del mattino del 5 luglio. La 9a armata corazzata del feldmaresciallo Walther Model, appoggiata dai carri armati pesanti Tiger e dai nuovi cannoni semoventi Ferdinand, avanzò in forze lungo uno stretto corridoio per aprirsi un varco nella muraglia fortificata di Zukov, ma incappò in una rete di fuoco difensivo quale mai l’esercito tedesco aveva incontrato. I carri armati e gli uomini rimasero inchiodati sulle loro posizioni in attesa che gli aerei aprissero loro una strada: riuscirono ad avanzare lentamente solo per pochi metri alla volta. Le centinaia di ostacoli posti sul campo erano rinforzati da commando mobili anticarro, armati con bottiglie di benzina e rudimentali congegni di disturbo, che si lanciavano in attacchi suicidi contro i carri armati nemici per immobilizzarli, in attesa che i cannoni anticarro potessero essere portati nella posizione adatta a colpire i carri armati tedeschi nei punti più vulnerabili, di solito le fiancate e la parte posteriore. I soldati si nascondevano in buche nel terreno e lanciavano granate sotto i veicoli che passavano sopra di loro. Le pesanti protezioni dei carri armati e dei cannoni semoventi tedeschi obbligavano i sovietici a ingaggiare combattimenti a distanza ravvicinata. Alla fine del primo giorno, gli attaccanti erano riusciti a conquistare poco più di sei chilometri di terreno.
Il 6 luglio Model mise in campo altri corazzati: una forza costituita da 3000 cannoni e 1000 carri armati attaccò su un fronte largo appena dieci chilometri. Lo spostamento di riserve corazzate dal-l’interno del saliente consentì di sostenere l’attacco e di infliggere forti perdite al nemico. Il giorno seguente fu decisivo per le sorti dello scontro. Il 7 luglio, dopo un’avanzata di una decina di chilometri, i carri armati tedeschi si diressero verso il villaggio di Ponyri. La battaglia era incessante: ben presto il rombo dei cannoni e delle bombe e il fumo denso resero molto difficile sia ascoltare che vedere. Le forze corazzate tedesche si lanciarono contro la linea difensiva principale e là si fermarono. Il giorno dopo i tedeschi scelsero un altro villaggio, Olchovatka, come nuova direttrice dello sfondamento. La concentrazione di carri armati sulle strette vie di accesso al villaggio costituì un facile bersaglio per i bombardieri in picchiata sovietici e per l’intenso e preciso fuoco incrociato dei cannoni anticarro e dell’artiglieria pesante. Il 9 luglio le forze tedesche del settore nord raggiunsero il limite della loro avanzata. Zukov disse a Stalin che era giunto il momento: la controffensiva nel settore settentrionale fu fissata per il 12 luglio. Appena fu lanciata, l’attacco tedesco crollò. Le divisioni di Rokossovskij, rinforzate da un flusso di rifornimenti e uomini trasportati lungo nuove linee ferroviarie, realizzate apposta per quella campagna, respinsero gli attaccanti oltre i fossati e le trincee che avevano superato la settimana precedente, lasciando dietro di sé i macabri resti di una battaglia perduta.
Sul fronte meridionale del saliente la situazione era meno incoraggiante. Anche se le informazioni raccolte dai sovietici sulle intenzioni tedesche erano state più complete rispetto all’anno precedente, la distribuzione delle forze tedesche era stata decisamente fraintesa. Il peso principale dell’attacco tedesco era stato previsto a nord, dove erano state schierate le difese sovietiche più forti. Invece i tedeschi erano più potenti a sud. La 4a armata corazzata del generale Hermann Hoth si lanciò contro il meno difeso dei due fronti sovietici. L’Armata Rossa combattè per resistere al nemico con la stessa frenetica energia dimostrata a nord, ma il generale Vatutin non disponeva del sostegno delle forze corazzate e della densità del fuoco d’artiglieria con cui Rokossovskij aveva intrappolato Model. Hoth aveva ai suoi ordini nove divisioni corazzate: la crema delle forze armate tedesche, capeggiate dai tre reparti più potenti dell’esercito, le divisioni corazzate delle SS Testa di morte, Reich e Guardie di Adolf Hitler. Esse colpirono con tanta forza che, in due giorni di feroci combattimenti, si spinsero per oltre trenta chilometri verso la strada Obojan-Kursk, un elemento chiave dell’offensiva. Nel suo quartier generale, Manstein attendeva con crescente fiducia il crollo del fronte nemico, così come era già successo molte altre volte.
Questa volta, però, l’avversario sovietico restò saldamente al suo posto. Il 7 luglio le divisioni delle SS raggiunsero la linea difensiva principale, dopo un estenuante assalto contro quelli che erano solo ostacoli preliminari. Di fronte a loro si trovava ora una forza al completo: la la armata corazzata. Il ritmo dell’avanzata si ridusse a un lento arrancare. Il 9 luglio le divisioni corazzate si raggrupparono in un potente ariete blindato e si aprirono un nuovo varco nella linea del fronte. Attraversarono il piccolo fiume Psèl, l’ultimo ostacolo naturale tra le linee tedesche e Kursk. I reparti avanzati della divisione Testa di morte crearono una piccola testa di ponte, dove si trincerarono: fu quello il punto più distante che riuscirono a raggiungere, l’ultimo respiro dell’offensiva tedesca iniziata due anni prima. Incapace di compiere altri progressi in quella direzione, Hoth spostò il peso del suo attacco a nordest, verso il piccolo nodo ferroviario di Prochorovka.
I cinque giorni a partire dal 9 luglio furono i più critici di tutta la battaglia di Kursk. I corpi corazzati delle SS si riorganizzarono, preparandosi per quella che si riteneva la manovra decisiva contro le forze sovietiche, indebolite dalle pesanti perdite in uomini e macchine, testimoniate dai corpi carbonizzati e dai cannoni contorti che ricoprivano il terreno annerito. Oltre cinquecento carri armati pesanti, tra i quali molti Tiger e Panther, più potenti dei T-34, si lanciarono in avanti. Il comando sovietico reagì facendo affluire parte delle preziose riserve conservate nelle lontane retrovie e destinate al contrattacco decisivo. Il 6 luglio Stalin telefonò personalmente al comandante della 5a armata corazzata della Guardia, generale Pavel Rotmistrov, ordinandogli di avanzare verso Prochorovka: tre giorni di estenuante marcia forzata per oltre trecentosettanta chilometri. Era il compleanno di Rotmistrov, che aveva organizzato una cena per l’occasione. Al loro arrivo, gli ospiti trovarono sulla tavola solo carte geografiche. Rotmistrov fornì i dettagli sul trasferimento, poi i presenti brindarono alla sua salute con lo champagne catturato a un reparto tedesco. All’una e mezzo del mattino del 7 luglio la 5a armata corazzata della Guardia cominciò a muoversi.
II viaggio fu difficile. L’armata doveva marciare giorno e notte, nonostante la minaccia dei bombardieri in picchiata tedeschi Ju-87 armati con cannoni anticarro, che già avevano seminato la distruzione tra le forze corazzate dell’Armata Rossa. Gli aerei sovietici pattugliavano la zona dall’alto per tenere a bada i velivoli avversari. Rotmistrov viaggiava con i suoi uomini, su autocarri convertiti in quartier generale, controllando via radio l’intero convoglio che avanzava come un’enorme falange su un fronte di oltre trenta chilometri. Il comandante del fronte della riserva, il generale Konev, seguiva in aereo tenendosi a distanza di sicurezza, per osservare i rinforzi in azione. Era la prima volta che un’intera armata corazzata si spostava con i suoi mezzi invece che per ferrovia. La situazione peggiorò in fretta: già alle otto del mattino il caldo divenne insopportabile, e il fiume senza fine di veicoli sollevava una densa polvere grigia che copriva gli uomini, i mezzi e i cavalli con uno strato di sporcizia. I soldati furono presto inzuppati di sudore e oppressi da una sete soffocante. Quel trasferimento rappresentò un collaudo straordinario per la robustezza e l’affidabilità dei veicoli sovietici: quando l’armata si fermò a un centinaio di chilometri dal fronte, il 9 luglio, era ancora una forza combattente intatta. Quel giorno Rotmistrov ricevette l’ordine di schierare le sue forze in assetto da combattimento e di coprire la distanza rimanente in un’unica tappa. Il 10 luglio le truppe, esauste, raggiunsero il fronte.
A Rotmistrov era stato ordinato di prepararsi a una grande battaglia di carri armati, ma non poteva immaginare che cosa lo stava aspettando. In effetti doveva usare i suoi T-34 nell’equivalente corazzato di uno scontro corpo a corpo contro i superiori carri armati Tiger e i cannoni semoventi Ferdinand del nemico. Negli scontri ravvicinati i T-34, grazie alla loro superiore manovrabilità, potevano attaccare i corazzati tedeschi sui lati e alle spalle e, proprio per la mancanza di spazio, potevano infliggere loro gravi danni. Furono necessari due giorni per trincerare l’artiglieria e approntare i carri armati. La pressione tedesca cresceva a ovest e a est di Prochorovka e si fecero sforzi disperati per resistere sui fianchi, impedendo ai tedeschi di sfondare prima che l’armata di riserva fosse pronta. Zukov ordinò a dieci reggimenti d’artiglieria di allestire reparti anticarro intorno alla città. Stalin ordinò a Vasilevskij, capo di stato maggiore dell’Armata Rossa, di assumere personalmente il comando della battaglia. Il mattino del 12 luglio si fronteggiarono due enormi forze corazzate: 850 carri sovietici contro 600 tedeschi. Fu il più grande scontro di carri armati della storia.
Rotmistrov andò in un rifugio ricavato in un frutteto che dominava il campo di battaglia. Sotto di lui si stendeva un grande campo di grano, illuminato dalla luce dorata del sole nascente. Più lontano c’erano i boschi dove, come sapeva, si nascondevano le forze corazzate tedesche. Le pattuglie mandate in esplorazione avevano sentito il rombo di centinaia di motori durante la notte, quando le divisioni delle SS si erano messe in posizione. In quel momento Finterà scena era stranamente silenziosa, eccezion fatta per il brusio delle linee di comunicazione. Alle 6.30 esatte apparve il primo aereo tedesco. Mezz’ora dopo i bombardieri tedeschi, ammassati come uno sciame di inquietanti insetti dal ronzio sempre più forte e minaccioso via via che si avvicinavano, scaricarono le loro bombe sui boschi e sui villaggi che circondavano Prochorovka. Prima di portare a termine il loro lavoro, però, furono attaccati da moltissimi caccia sovietici. Gli aerei di entrambe le parti cominciarono a precipitare e le esplosioni di quelli colpiti sostituirono i tonfi delle bombe. I bombardieri ritornarono alla base.
Al loro posto arrivarono ondate di bombardieri e di caccia sovietici, che inondarono i boschi antistanti di bombe e razzi. Quindi l’artiglieria sovietica aprì il fuoco, e sui ripari delle truppe delle SS cadde una pioggia ininterrotta di bombe e granate. Infine, alle 8.30, Rotmistrov diede l’ordine con la parola in codice per l’attacco: «acciaio, acciaio» (stalin in russo). L’ordine percorse come un fulmine l’intero schieramento. I carri T-34 uscirono dai loro nascondigli tra i campi. Nello stesso momento, come se «acciaio» fosse stata anche la loro parola d’ordine, i carri armati e i cannoni semoventi tedeschi cominciarono a uscire dal limite dei boschi. In un’area di meno di otto chilometri quadrati, più di mille carri armati si lanciarono gli uni contro gli altri. Nessuno dei due contendenti aveva programmato apposta uno scontro frontale, ma era ormai inevitabile. Raramente i carri armati si erano impegnati in battaglie campali contro altri carri armati ma ora, come due orde preistoriche, i corazzati si andavano incontro, predatori feroci contro predatori feroci.
La battaglia che ne seguì potè essere osservata solo con grande difficoltà dalla collina sovrastante, dove stava Rotmistrov. Presto il fumo e la polvere oscurarono la scena. Nel corso della giornata un’intensa pioggia sferzante e violenti temporali aggiunsero un elemento naturale al dramma che si stava svolgendo. In breve tempo i carri armati si mescolarono talmente tra loro che entrambe le parti furono costrette a interrompere il fuoco dell’artiglieria e le incursioni aeree. I T-34, dotati di cannoni meno potenti di quelli degli avversari, si avvicinavano il più possibile ai Tiger e ai Panther per riuscire a danneggiarli. Quando esaurivano le munizioni, speronavano i carri nemici. Quando un carro armato si bloccava, i corazzati nemici si avvicinavano, ma gli equipaggi del mezzo con i cingoli o le ruote rotti continuavano a combattere finché avevano munizioni; una volta esauriti i colpi, i soldati sovietici saltavano a terra e lanciavano bottiglie di benzina o bombe a mano. Fu una lotta quasi del tutto priva di un ordine qualsiasi. Entrambe le parti subirono pesanti perdite. Alla fine della giornata sul campo giacevano più di settecento carri armati colpiti e distrutti, colti dalla morte in posizioni assurde con gli scafi bucati, i cannoni di traverso, le torrette asportate dalla forza dell’esplosione delle munizioni di bordo o da un colpo fortunato. Accanto a loro giacevano migliaia di corpi bruciati o ancora in fiamme. Dopo otto ore entrambe le parti si fermarono. C’erano incendi ovunque: nelle fattorie, nei villaggi, nei prati e negli orti, anneriti dalle infinite esplosioni. Quando finalmente Rotmistrov potè lasciare il suo rifugio, quella sera, la pioggia era cessata. L’aria stessa sembrava bruciata. Dopo il tuono assordante della battaglia, potè udire il suono smorzato delle operazioni di recupero e dei nuovi preparativi. Piccole pattuglie percorrevano il campo di battaglia in cerca dei propri feriti. I soldati tedeschi facevano esplodere i carri armati che non potevano essere rimorchiati per le riparazioni. Un flusso continuo di munizioni, carburante e rifornimenti giungeva a bordo degli autocarri. Il genio stendeva nuovi campi minati. Rotmistrov si addormentò poco prima dell’alba e fu svegliato alcune ore dopo dal coro mattutino delle bombe in arrivo.
La battaglia non era finita il primo giorno, ma l’esito era ormai meno incerto: le perdite tedesche erano state troppo pesanti per consentire uno sfondamento decisivo. Le forze sovietiche avevano retto all’attacco tedesco, ma non avevano fatto grandi progressi. Furono respinti alcuni attacchi sui fianchi, condotti da massicce formazioni tedesche a destra e a sinistra dello schieramento. Quando gli attacchi ricominciarono, il mattino seguente, non ci fu un’altra mischia carro contro carro. Le forze tedesche misero alla prova le difese sovietiche per trovare un varco, ma Vasilevskij e Vatutin mossero i loro reparti con la rapidità necessaria per smorzare gli assalti nemici. Altri due giorni di combattimenti dimostrarono che l’agognato sfondamento non era alla portata delle forze tedesche. Il 15 luglio la battaglia finalmente si concluse, con le due parti schierate all’incirca sulle posizioni che avevano all’inizio. Le divisioni delle SS erano devastate: la divisione Testa di morte, che aveva sostenuto l’urto della battaglia a Prochorovka, fu ritirata dal fronte. L’armata corazzata tedesca aveva perduto più della metà degli uomini e la metà dei veicoli. Alcune divisioni si erano ridotte a tal punto da avere solo diciassette carri armati ancora utilizzabili. Anche le perdite sovietiche furono elevate: U giorno dopo lo scontro dei carri armati, a Rotmistrov era rimasta solo la metà delle sue forze, sebbene i rifornimenti continuassero ad arrivare da altre parti del fronte.
La grande battaglia dei carri armati influenzò profondamente gli alti comandi russi. Il maresciallo Zukov arrivò il 13 luglio per controllare di persona i danni. Fu condotto attraverso il desolato scenario della battaglia con Rotmistrov e Nikita Chruscèv, allora rappresentante del Consiglio Militare al fronte. Fece fermare l’auto più volte per osservare i carri armati: masse metalliche strette contro altre masse metalliche. Rotmistrov osservò nel suo ospite uno sconforto insolito: l’uomo che spostava intere armate sul tavolo delle carte era «sconvolto dalla scena» della battaglia reale. Quando, il 12 luglio, Vasilevskij osservò la battaglia tra i corazzati che si svolgeva sotto i suoi occhi, ne ebbe, come ricordò più tardi, «un’impressione indelebile». Quegli scontri tra carri armati «non ebbero uguali in tutta la guerra». Settimane dopo la battaglia l’intera regione, lunga cinquanta chilometri e larga altrettanto, era ancora «uno spaventoso deserto», come scrisse un corrispondente di guerra; a molti chilometri di distanza si poteva ancora avvertire nell’aria il fetore delle centinaia di cadaveri insepolti e gonfi per la calura estiva. Là, a Kursk, era possibile comprendere l’espressione ossessionante coniata da II’ja Ehrenburg per descrivere quell’estate: «guerra profonda».
La battaglia di Kursk pose fine a qualunque realistica prospettiva di vittoria tedesca a Est. Pochi giorni prima dello scontro di Prochorovka una forza angloamericana aveva invaso l’Italia, obbligando Hitler a trasferire preziosi reparti dell’esercito dal fronte orientale.
Il 13 luglio l’operazione Cittadella fu ufficialmente annullata e l’armata corazzata di Hoth ricevette l’ordine di ritirarsi combattendo fino alle linee che aveva tenuto prima del 5 luglio.41 Fu quindi attivata la seconda fase del piano di Zukov e Vasilevskij. Sembra che i tedeschi non sospettassero affatto la possibilità che i russi potessero avere altri obiettivi oltre all’arresto dell’attacco avversario; d’altra parte i comandanti tedeschi credevano che, dopo le enormi perdite subite nel corso della difesa, i sovietici non avessero alcuna seria possibilità di organizzare una controffensiva. La vera importanza della battaglia di Kursk non stava però nella risoluta difesa del saliente, ma nell’offensiva che ne seguì.
L’operazione Kutuzov scattò il 12 luglio sul limite settentrionale del saliente. Questa volta toccò alle forze sovietiche attaccare un fronte difeso saldamente, in cui si succedevano in profondità campi minati, trincee, reticolati e bunker. L’obiettivo era la distruzione della concentrazione di forze tedesche intorno a Orèl e Brjansk, scardinando l’intero fronte centrale nemico. L’attacco incontrò una forte resistenza, ma conseguì anche un grande successo. Le forze d’urto erano state concentrate su un fronte ristretto per aprire un piccolo varco nella linea difensiva tedesca. Con una potente copertura aerea, un assalto combinato di fanteria e carri armati fu seguito da un’intera armata corazzata, che dilagò attraverso il varco e si aprì a ventaglio per distruggere le postazioni difensive avversarie: un attacco che riprendeva parecchi dei concetti formulati dieci anni prima da Tuchacevskij. Il 5 agosto le forze russe riconquistarono Orèl, il 18 agosto la città di Brjansk tornò in mani sovietiche. La controffensiva a sud, denominata in codice operazione Rumjantsev, era stata posta sotto il diretto controllo di Zukov. L’attacco fu sferrato il 3 agosto, utilizzando le riserve del fronte della steppa per rinforzare le forze ormai stanche che avevano respinto l’attacco tedesco in luglio. L’obiettivo era la città di Charkov, dove le forze armate sovietiche erano state sconfitte due volte da abili contrattacchi tedeschi. L’Armata Rossa conquistò la città di Belgorod il 5 agosto ma, sulla via di accesso a Charkov, le divisioni corazzate tedesche, che nel frattempo si erano riorganizzate, sferrarono un contrattacco contro i fianchi delle armate corazzate sovietiche, minacciando di ripetere i precedenti successi. Questa volta, però, le forze sovietiche erano schierate in modo molto più efficace: l’assalto fu parato e Charkov cadde il 28 agosto.
In tutta la Russia si diffuse un’atmosfera di crescente euforia. La vittoria spinse Stalin a compiere quella che doveva rimanere la sua unica visita a un fronte sovietico. Il 1° agosto lasciò la sua dacia di Kuntsevo a bordo di un treno speciale. La locomotiva, le carrozze e le piattaforme erano state mimetizzate con rami d’albero. Giunse al fronte occidentale, ormai distante molti chilometri da Mosca, dove trascorse una notte priva di particolari avvenimenti. Il giorno successivo si trasferì sul fronte di Kalinin, a nord, dove fece sosta in una capanna di contadini (la visita è ancora ricordata da una targa com-memorativa). Non incontrò né ufficiali né soldati e il giorno dopo tornò a Mosca.42 Le sue intenzioni possono essere solo ipotizzate: forse sperava di impressionare il suo entourage, anche se una dimostrazione di tale modestia non sarebbe certo servita allo scopo; forse era davvero a disagio per aver mandato un numero enorme di suoi concittadini a combattere in zone che lui non conosceva neppure. Avendo accusato così tante persone di vigliaccheria, aveva buoni motivi per evitare di essere tacciato a sua volta della stessa infamia. Qualunque fossero le sue intenzioni, presto sfruttò al meglio quella visita. Pochi giorni dopo scrisse a Roosevelt per spiegare il suo ritardo nel rispondere a un precedente messaggio del presidente statunitense: «Devo visitare personalmente i diversi settori del fronte sempre Più spesso.. .».43 Due giorni dopo il suo ritorno ordinò una salva per la vittoria a Mosca, per salutare la liberazione di Orèl e Belgorod. A mezzanotte del 5 agosto centoventi cannoni spararono dodici salve.