LA FINE DELLA VI ARMATA
brano tratto da A.Clark -"Barbarossa", Garzanti, 1965
Alla fine di ottobre le posizioni russe a Stalingrado si erano ridotte a poche sacche di pietra, quasi mai profonde più di un centinaio di metri, lungo la sponda destra del Volga. La fabbrica Ottobre Rosso era caduta nelle mani dei tedeschi che avevano coperto ogni metro del suo suolo con i loro morti. La fabbrica Barricata era per metà perduta con i tedeschi da un lato della fonderia di fronte alle mitragliatrici russe piazzate nei forni spenti all’altra estremità. I difensori della fabbrica Trattore erano stati divisi in tre gruppi separati.
Ma questi ultimi isolotti di resistenza, induriti nella fornace dei ripetuti attacchi, erano irriducibili. La VI armata era logorata, sfinita, come lo erano state le divisioni di Haig a Passchendaele esattamente un quarto di secolo prima; e da un punto di vista puramente militare l’idea di un’altra « offensiva » nella città era impensabile. Se il Gruppo di Armate B ne avesse avuto la forza, la manovra corretta sarebbe stata quella di attaccare a Voronezh e scalzare il fronte del Don cominciando dall’estremità settentrionale. Ma il gruppo di armate non aveva tale forza; lo spiegamento della Wehr-macht si era tremendamente allungato su un fronte che si era quasi raddoppiato in lunghezza dopo l’inizio della campagna estiva. La Wehrmacht si trovava nella posizione particolarmente pericolosa di essere l’esercito più debole, quello che per compensare la sua inferiorità materiale non aveva altro che l’« iniziativa ». Ma se lo slancio si esauriva i pericoli sarebbero diventati gravissimi, e lo slancio si sarebbe esaurito quando le riserve fossero venute meno.
Naturalmente, questo ragionamento poteva portare a due conclusioni. La prima, e la più ovvia, imponeva un immediato ripiegamento; le perdite dovevano essere ridotte al minimo e ci si doveva attestare su una « linea invernale » molti chilometri più addietro sul fiume Chir, o addirittura sul Mius. L’alternativa, quella da cui i soldati si lasciano spesso convincere, era costituita dalla ben nota « lezione » di Waterloo e della Marna, e cioè che « è l’ultimo battaglione che decide la vittoria ». I tedeschi, che avevano visto quell’inferno bruciare le loro forze una settimana dopo l’altra, non volevano ammettere che il logorio dei russi fosse inferiore al loro. Per molti, e specialmente per Hitler, il parallelo con Verdun era irresistibile. Se un posto assume un’importanza simbolica, la sua perdita può stroncare la volontà dei difensori indipendentemente dal suo interesse strategico. Nel 1916 il rullo compressore di Falkenhayn era stato fermato allorché sarebbe bastato un altro mese per distruggere l’intero Esercito francese. A Stalingrado non c’era in gioco solo la volontà dei russi, ma il riconoscimento mondiale della potenza della Germania. Ritirarsi dal campo di battaglia avrebbe voluto dire ammettere la sconfitta, e ciò, anche se poteva essere accettato dal cervello freddo e calcolatore di un militare di professione, era impensabile « nell’orientamento cosmico delle forze politiche mondiali », come avrebbe detto Schwerin von Krosigk.
L’atteggiamento di Hitler avrebbe potuto cambiare (ma non è del tutto sicuro) se egli avesse ricevuto dei rapporti precisi invece delle cifre errate che Paulus gli mandava. Ma la VI armata, per un comprensibile desiderio di giustificare i rinforzi che venivano chiesti e per sottolineare il peso che stava sostenendo, tendeva a denunciare la presenza di intere divisioni russe laddove esistevano solo reggimenti e addirittura battaglioni, dando per scontata la presenza di tutta la divisione quando veniva individuato un reparto della medesima. Dato il gran numero di unità miste che Chuikov aveva messo insieme nelle diverse parti della città, questo sistema condusse a una valutazione delle forze russe che era cinque o sei volte superiore alla realtà. Oltre a far credere ai tedeschi che essi stavano logorando l’Armata Rossa ad un ritmo più veloce di quanto non si logorassero essi stessi, questo errore di calcolo fece sì che si scartasse la possibilità di una controffensiva russa, dato che i russi non dovevano avere più riserve. Un altro grave errore di cui Weichs e Paulus sono entrambi responsabili fu quello di non essersi preoccupati delle forze romene alle ali. Era già una cattiva cosa cercare di proteggere quelle posizioni vulnerabili con unità che erano male equipaggiate e che si erano dimostrate inferiori alla fanteria russa ordinaria; ancor meno prudente fu l’aver trascurato il coordinamento dei servizi informazione ed esplorazione sul loro fronte ed aver ignorato i periodici avvertimenti inviati dai romeni.
Queste divisioni romene erano inadatte a condurre da sole delle operazioni contro l’Armata Rossa. Erano organizzate sullo schema della divisione di fanteria francese della prima guerra mondiale (ed erano per lo più equipaggiate con materiale francese preso dai tedeschi nel 1940). In ogni divisione c’era una sola compagnia anticarro con i vecchi pezzi da 37 mm. Dopo ripetute richieste inoltrate dal comandante dell’armata, generale Dumitrescu, nel mese di ottobre i romeni ricevettero un’assegnazione di cannoni tedeschi da 75 mm: sei per divisione! Scarseggiavano le munizioni di ogni specie e non c’erano mine moderne anticarro e antiuomo. I romeni erano anche a corto di viveri e di equipaggiamento invernale: un tedesco che visitò le loro linee all’inizio di novembre osservò che « ... la costruzione delle difese è stata trascurata in favore di grandi ricoveri per i comandi e di rifugi per gli uomini e gli animali ».
Questa debolezza, e il fatto che i romeni non erano affatto schierati lungo tutto il Don, ma solo di fronte a una serie di teste di ponte russe, alcune delle quali profonde fino a sedici chilometri, faceva del loro settore il punto ideale per la controffensiva. E così, mentre l’inverno si avvicinava, le prospettive di questa controffensiva divennero l’argomento di parecchie congetture. « L’unica consolazione era che l’intera campagna orientale era stata basata su improvvisazioni apparentemente tanto impossibili e che, in un modo o nell’altro, l’impossibile era sempre stato conseguito. » Quello di cui nessuno sembrò rendersi conto, dallo Stato Maggiore di Paulus fino al Quartier Generale dell’OKW a Vinnitsa, fu la forza dell’imminente attacco russo. La prima positiva indicazione di ciò che bolliva in pentola si ebbe solo il 29 ottobre, quando Dumitrescu mandò a Weichs un rapporto riguardante:
1. il traffico in aumento sul Don nelle retrovie russe
2. le dichiarazioni di disertori
3. i continui attacchi locali, « il cui solo obiettivo deve essere quello di trovare il punto debole e di preparare la strada all’attacco vero e proprio ».
Dopo aver preso alcune misure per constatare la veridicità di tali affermazioni soprattutto per mezzo della ricognizione aerea (che diventava sempre più diffìcile a causa del peggioramento delle condizioni atmosferiche) Paulus si recò al Quartier Generale del gruppo di armate, a Starobelsk, con un rapporto che sottovalutava di molto la forza del concentramento russo.
I dati di Paulus riguardavano unità « chiaramente identificate » a Kletskaya : « tre nuove divisioni di fanteria con alcuni carri armati concentrate presumibilmente nella zona; una nuova formazione corazzata, una nuova motorizzata e due nuove di fanteria ». A Blynov,« due nuove unità di fanteria con alcuni carri ». Stando a queste affermazioni, naturalmente, l’offensiva sovietica non sarebbe stata più violenta delle molte che la Wehrmacht aveva respinto in passato. Ancora il 12 novembre, esattamente una settimana prima che scoppiasse la tempesta, Richthofen (che era un inguaribile ottimista) annotava nel suo diario dopo una ricognizione aerea sulle teste di ponte russe :
Le loro riserve sono state concentrate. Mi chiedo quando attaccheranno. Per il momento sembra che abbiano scarsezza di munizioni [questo perchè l’artiglieria russa non sparava per non rivelare le sue posizioni]. Si cominciano però a vedere i cannoni nelle postazioni di artiglieria. Spero solo che i russi non facciano troppi buchi nella nostra linea!
La maggior parte degli ufficiali di Stato Maggiore del Gruppo di Armate B si preoccupava ancora soprattutto dei preparativi per l’« ultimo sforzo » a Stalingrado. Richthofen afferma che anche Zeitzler era d’accordo con lui : «... Se non riusciremo a chiarire la situazione ora che i russi sono veramente in difficoltà e il Volga è bloccato dai ghiacci, non ci riusciremo mai. » Il capo dello Stato Maggiore Generale sarebbe stato sicuramente di parere molto diverso se avesse saputo che i russi, lungi dall’essere « in difficoltà », avevano concentrato oltre mezzo milione di soldati, 900 nuovi T 34, 230 reggimenti di artiglieria campale e 115 reggimenti di « Katiusce » su un fronte d’attacco inferiore ai sessantacinque chilometri: la più alta densità di uomini e di bocche da fuoco che si fosse mai avuta in tutte le battaglie della campagna orientale.1
Mentre i tedeschi raccoglievano le forze per effettuare l’ultimo tentativo contro gli isolotti di macerie di Stalingrado e alle loro spalle le armate di Zukov prendevano posizione di nascosto, nella città si avevano inquietanti periodi di calma che duravano anche delle ore.
A volte un silenzio, più fastidioso del fragore delle esplosioni, si diffondeva sulla città che sembrava allora come morta. Ma la sorveglianza continuava, sebbene nessuno distinguesse più il giorno dalla notte. Anche nei brevi periodi di calma, da ogni fabbrica, da ogni casa distrutta si osservava tutto con estrema attenzione. Gli occhi acuti dei cecchini spiavano il più piccolo movimento del nemico. Le squadre dei servizi logistici, cariche di mine e di proiettili... si affrettavano lungo i camminamenti che correvano a zig-zag fra le macerie. Nei piani più alti delle case gli osservatori dell’artiglieria stavano sul chi vive. Nelle cantine i comandanti si chinavano sulle mappe, gli scritturali battevano sulle macchine per scrivere, i documenti passavano da un ufficio all’altro, si davano ordini ai soldati. I genieri, impegnati nel loro pericoloso lavoro, scavavano gallerie e cercavano di localizzare quelle del nemico.
Scaramucce locali impegnate al massimo da una compagnia avevano luogo di continuo in quanto ciascuno dei due contendenti cercava di migliorare le proprie posizioni. Un carro tedesco appariva all’angolo di una strada; lentamente cominciava ad avanzare verso gli edifici tenuti dai russi, con i portelli chiusi e l’equipaggio scosso da un tremito nervoso nell’attesa del combattimento. I fanti russi lo guardavano passare, anch’essi tremanti, mentre aspettavano la comparsa degli altri tedeschi. Un altro carro appare all’angolo della strada; si ferma e segue l’avanzare del primo carro brandeggiando lentamente la torretta. Poi, d’improvviso un’esplosione. Un pezzo anticarro russo da 76 all’estremità orientale della strada apre il fuoco; la distanza è inferiore ai cinquanta metri ma sembra che abbia mancato il colpo, e allora d’improvviso la scena si anima in una esplosione di rumori e di gemiti. Il carro tedesco fa immediatamente marcia indietro, l’altro carro ne copre la ritirata sparando subito in direzione del fumo del cannone russo; nello stesso tempo una squadra di soldati tedeschi armati di mitra e di bombe a mano salta fuori dai cunicoli fra le macerie, nei quali aveva avanzato strisciando, e vuota i caricatori contro il cannone anticarro. Mentre ciò avviene, i cecchini russi, che erano rimasti immobili per ore negli anfratti delle case smozzicate, in cima ai cornicioni delle facciate cadenti, pescano i nemici ad uno ad uno. Se l’azione non degenera, se ciascuna delle due parti non chiama in aiuto armi sempre più numerose e più pesanti, in breve si esaurisce e i feriti rimangono a gemere allo scoperto fino a che non fa buio.
Queste giornate « tranquille » erano dominate dai cecchini. Era questa un’arte in cui i russi eccellevano. Tiratori di particolare abilità divennero in breve famosi non solo fra i loro camerati ma anche fra i nemici, e il predominio russo divenne così marcato che il capo della scuola dei franchi tiratori a Zossen, Standartenjùhrer ss Heinz Thorwald, venne mandato a Stalingrado per cercare di ristabilire l’equilibrio. A uno dei migliori tiratori sovietici venne affidato il compito di pescarlo. Egli racconta che
L’arrivo del cecchino nazista ci pose davanti a un nuovo compito; dovevamo trovarlo, studiare le sue abitudini e i suoi metodi e aspettare pazientemente il momento giusto per tirargli un colpo ben diretto : uno e soltanto uno.
Nel nostro rifugio, di notte, discutevamo accanitamente sul duello imminente. Ogni tiratore esponeva le sue idee e le sue supposizioni basate sull’osservazione delle posizioni avanzate del nemico. Venivano discusse le più differenti proposte ed « esche ». Ma l’arte del franco tiratore si distingue per il fatto che, indipendentemente dall’esperienza di molti, il risultato di uno scontro è deciso da un solo tiratore. Egli si incontra col nemico a faccia a faccia, e ogni volta deve creare, inventare, agire in modo diverso. Non ci possono essere sistemi fissi per un cecchino; un sistema fisso sarebbe un suicidio.
Riconoscevo lo stile dei franchi tiratori nazisti dal modo in cui sparavano e si nascondevano e avrei potuto distinguere senza difficoltà il tiratore esperto dal novizio, il vigliacco da quello coraggioso e tenace. Ma il carattere del capo della scuola era ancora un mistero per me. Le nostre osservazioni quotidiane non ci dicevano niente di preciso. Era difficile stabilire in quale settore operasse. Probabilmente cambiava spesso posizione e mi cercava come io cercavo lui. Poi accadde qualcosa. Il mio amico Morozov fu ucciso e Sheykin fu ferito da un fucile munito di mirino telescopico. Morozov e Sheykin erano considerati tiratori esperti; erano spesso usciti vittoriosi dai più diffìcili duelli con il nemico. Ora non c’erano più dubbi. Si erano imbattuti nel « super-cecchino » nazista che io stavo cercando. All’alba mi portai con Nikolay Kulikov nella stessa posizione che i nostri compagni avevano occupato il giorno prima. Osservando le posizioni del nemico, che studiavamo da molti giorni e conoscevamo bene, non scoprii nulla di nuovo. 11 giorno stava per terminare. Poi, al di sopra dell’orlo di una trincea tedesca, apparve un elmetto che si muoveva lentamente. Dovevo sparare? No! Era un trucco: l’elmetto si muoveva un po’ a scatti e probabilmente era sostenuto da qualcuno che aiutava il cecchino, il quale aspettava che io facessi fuoco.
« Dove può essere nascosto? » chiese Kulikov, mentre lasciavamo il rifugio col favore delle tenebre. A giudicare dalla pazienza di cui il nemico aveva dato prova durante la giornata, pensai che dovesse trattarsi del franco tiratore di Berlino. Bisognava essere molto cauti.
Passò una seconda giornata. Chi avrebbe avuto i nervi più saldi? Chi sarebbe stato più furbo?
Nikolay Kulikov, un vero camerata, subiva anche lui il fascino di questo duello. Non aveva dubbi che il nemico fosse davanti a noi e desiderava che vincessimo. Il terzo giorno venne con noi nel rifugio anche l’istruttore politico Danilov. L’alba cominciò come al solito: la luce andò aumentando d’intensità e ad ogni minuto che passava le posizioni del nemico si vedevano sempre più chiaramente. Vicino a noi cominciò un combattimento, i proiettili passavano fischiando sopra le nostre teste ma noialtri, con gli occhi incollati ai mirini telescopici, osservavamo solo quello che accadeva davanti a noi.
« Eccolo! Ora te lo indico! » disse improvvisamente l’istruttore politico tutto eccitato. Imprudentemente si sporse al di sopra del parapetto per un solo secondo, ma questo fu sufficiente perchè il tedesco lo colpisse ferendolo. Un colpo così, naturalmente, poteva essere sparato solo da un tiratore esperto.
Esaminai a lungo le posizioni del nemico ma non riuscii a scoprire il suo nascondiglio. Dalla velocità con cui aveva fatto fuoco, dedussi che il cecchino doveva trovarsi proprio davanti a noi. Continuai ad osservare. Sulla sinistra c’era un carro armato fuori uso e sulla destra una casamatta. Dove stava? Nel carro armato? No, un tiratore esperto non avrebbe scelto quel posto. Forse nella casamatta? Nemmeno: la feritoia era ostruita. Fra il carro armato e la casamatta, su un tratto di terreno piano, c’era una lastra di ferro e una piccola catasta di mattoni. Era lì da molto tempo e ci eravamo abituati a vederla. Mi misi nei panni del nemico e pensai: quale posto migliore per un cecchino?
Bastava solo praticare una piccola feritoia sotto la lastra di metallo e poi scivolare fin lì durante la notte.
Sì, doveva essere senza dubbio laggiù, sotto la lastra di metallo nella terra di nessuno. Volli accertarmene. Misi un guanto in cima ad un pezzo di legno e lo alzai. Il nazista sparò. Tirai giù il pezzo di legno avendo cura di tenerlo nella stessa posizione ed esaminai il foro del proiettile. Era penetrato proprio diritto; ciò significava che il nazista stava sotto la lastra di metallo.
« Ecco la nostra vipera! » mi sussurrò Nikolay Kulikov dal suo nascondiglio che era vicino al mio.
Ora c’era il problema di fare entrare anche una parte della sua testa nel mio campo di tiro. Era impossibile cercare di farlo in fretta. Ci voleva del tempo. Ma io ero riuscito a studiare il temperamento del tedesco. Non avrebbe lasciato la buona posizione che aveva trovato. Dovevamo perciò essere noi a cambiare posizione.
Lavorammo durante la notte e all’alba eravamo pronti. I tedeschi sparavano sui traghetti del Volga. Fece giorno rapidamente e con le prime luci dell’alba la battaglia aumentò d’intensità. Ma nè il crepitio dei fucili nè le esplosioni delle granate e delle bombe, nulla insomma, riusciva a distrarci dal nostro compito.
Il sole si levò. Kulikov tirò un colpo a casaccio. Dovevamo risvegliare la curiosità del cecchino. Avevamo deciso di lasciar passare la mattinata fintanto che i raggi del sole non battessero più sulle lenti dei nostri telescopi. Dopo mezzogiorno i nostri fucili erano in ombra e il sole batteva direttamente sulla posizione del tedesco. All’estremità della lastra di metallo c’era qualcosa che scintillava: un pezzo di vetro o la lente del telescopio? Kulikov cominciò con molta cura a sollevare il suo elmetto, come lo sa fare solo chi ha una grande esperienza. Il tedesco fece fuoco. In una frazione di secondo Kulikov si alzò e urlò. Il tedesco credette di avere finalmente colpito il cecchino sovietico cui aveva dato la caccia per quattro giorni e levò a metà la testa da sotto la lastra di metallo. Era quello che stavo aspettando. Presi attentamente la mira. La testa del tedesco si piegò indietro e il telescopio del suo fucile rimase immobile, luccicando al sole finché non cadde la notte...
In occasione dell’ultima offensiva della VI armata erano state cambiate sia l’organizzazione che la tattica. Le divisioni Panzer in pratica non esistevano più in quanto i carri erano stati divisi in compagnie e dati in appoggio alla fanteria. Erano giunti in volo nella città altri quattro battaglioni guastatori che dovevano essere usati come punte avanzate di quattro diversi attacchi che miravano a completare lo spezzettamento delle linee dei difensori. Gli ultimi « rettangoli », come venivano chiamati, sarebbero stati poi polve-rizzati dal fuoco concentrato dell’artiglieria. La vecchia e dispendiosa tecnica del combattimento casa per casa, in cui una intera compagnia poteva logorarsi sulle scale, sui balconi, sugli attici e nei corridoi di un unico edificio, fu impiegata solo come ultima risorsa. La fanteria di entrambi i contendenti era sottoterra : nelle cantine, nelle fogne, nei condotti, nei tunnel, che costituivano le appendici del campo di battaglia. Solo i carri armati strisciavano lentamente in superficie, osservati dai cecchini nascosti nei loro precari rifugi.
L’attacco di Paulus, che cominciò l’11 novembre, fu altrettanto mal guidato e disperato dell’ultima offensiva invernale del Gruppo di Armate Centro contro Mosca dodici mesi prima. Nel giro di quarantott’ore era degenerato in una serie di violenti scontri sotterranei privi di un coordinamento centrale. Molti piccoli gruppi di tedeschi riuscirono a coprire i duecento metri che li separavano dal Volga, ma arrivati al fiume si trovarono tagliati fuori dai russi che ritornarono sui loro passi attraverso gli stretti cunicoli che avevano scavato. Per altri quattro giorni combattimenti d’inaudita ferocia divamparono fra questi gruppi isolati. Non venivano più presi prigionieri e i combattenti avevano poche speranze di sopravvivere. Riempiti di alcool e di benzedrina, con la barba lunga, sfiniti a causa dei molti giorni passati senza dormire e senza un attimo di tregua, sembravano dominati dall’unico ossessionante scopo di giungere al combattimento a corpo a corpo, di gettarsi alla gola gli uni degli altri.
Il 18 novembre la stanchezza e la scarsezza di munizioni imposero una sosta. Durante la notte, il crepitio delle armi portatili e lo scoppio dei mortai si spensero e dalle due parti si cominciarono a recuperare i feriti. Poi, quando l’alba cominciò a illuminare le nubi di fumo, un nuovo terribile rumore piombò sugli ultimi focolai della battaglia di Stalingrado: il tuonante sbarramento dei duemila cannoni di Voronov a nord. Tutti i tedeschi che lo sentirono, capirono che faceva presagire qualcosa di nuovo.
L’artiglieria russa, sebbene fosse stata sempre molto buona, non aveva però l’abitudine di prolungare il fuoco per lunghi periodi di tempo. Ma quel giorno [19 novembre] fu diverso... Un continuo martellamento sin dall’alba, accompagnato dal sibilo di una scarica di « Katiuscia » ogni minuto circa.
Alle 9,30 di mattina del 19 il frastuono venne aumentato dai cannoni di Tolbukhin, Trufanov e Shumilov che scattavano dalle loro posizioni a sud, mentre gli ufficiali della VI armata cominciavano a rendersi conto delle dimensioni del contrattacco russo e della minaccia che esso creava per l’intera posizione tedesca.
Paulus aveva già preso due misure per « affrontare » la minaccia russa dopo che il 9 novembre era giunto a una valutazione (disastrosamente imprecisa) delle forze e delle intenzioni russe. L’armata romena era stata rinforzata con un gruppo d’appoggio comandato dal colonnello Simons, e il XLVIII corpo d’armata Panzer era stato trasferito nella piccola ansa del Don come riserva mobile. Il gruppo di Simons comprendeva un battaglione di Panzergrenadiere con una compagnia anticarro e alcuni pezzi di artiglieria pesante. Il corpo d’armata Panzer aveva a malapena gli effettivi di una divisione e 92 dei suoi 147 carri erano 38-t cecoslovacchi guidati da romeni. La XIV Panzer, con altri 51 Mark iv, era stata anch’essa aggregata al corpo d’armata, ma era così disorganizzata in seguito ai combattimenti sostenuti nelle strade che, quando cominciò l’offensiva russa, il suo ritiro dal fronte della città non era stato ancora completamente effettuato.
Durante tre giorni, dal 19 novembre alla sera del 22, il fronte tedesco e romeno si ruppe per una lunghezza di oltre ottanta chilometri a nord e cinquanta a sud. Nella breccia Zukov fece passare sei armate, eliminando la resistenza di alcune sacche e neutralizzando gli sforzi del gruppo di Simons e del mal ridotto XLVIII corpo d’armata Panzer. Lo Stato Maggiore della VI armata passò due notti insonni per cercare di raggruppare i preziosi carri armati e di ritirare la fanteria dal labirinto fumante di Stalingrado per inviarla a proteggere le ali che cedevano. Nelle retrovie di Paulus la confusione era assoluta; la ferrovia che giungeva da Kalach, a occidente, era stata già tagliata in tre punti dalla cavalleria russa; il rumore degli spari giungeva da ogni direzione, e di quando in quando si verificavano scaramucce fra i tedeschi che andavano verso il fronte e gruppi mal ridotti di romeni che si ritiravano senza più una guida. Il grosso ponte di Kalach, sul quale passava ogni chilo di viveri ed ogni proiettile destinato alla VI armata, era stato minato e il 23 novembre un plotone di genieri vi montò la guardia tutto il giorno, nel caso giungesse l’ordine di farlo saltare.
Alle quattro e mezzo del pomeriggio si sentirono dei carri armati avvicinarsi da occidente. Il tenente che comandava i genieri pensò dapprima che potessero essere russi, ma si tranquillizzò quando vide che i primi tre veicoli erano dei semicingolati Horch con i distintivi della 22a divisione Panzer; pensando che si trattasse di una colonna di rinforzi per Stalingrado, diede l’ordine ai suoi uomini di alzare la barriera. I semicingolati si fermarono all’imboccatura del ponte e ne uscirono sessanta russi che uccisero la maggior parte dei genieri a colpi di mitra facendo prigionieri i sopravvissuti. Le cariche di esplosivo vennero disinnescate e venticinque carri della colonna attraversarono il ponte, puntando verso sud-est, e quella sera stessa si congiunsero con la 14* brigata corazzata indipendente appartenente alla LI armata di Trufanov. In tal modo, veniva saldato il primo sottile anello di una catena che doveva rinserrali duecentocinquantamila soldati tedeschi. La seconda guerra mondiale era giunta a una svolta decisiva.
NOTE:
1 II complesso delle forze corazzate fu suddiviso in quattro corpi d’armata corazzati, tre corpi d’armata motorizzati e quattordici brigate carriste « indipendenti ». Le forze d’attacco erano la V armata corazzata, parte della I armata Guardie e la XXI armata. Nel Sud, la LVII armata, la LI armata e la resuscitata LXIV armata (per gli schieramenti si vedano le cartine).
Ma questi ultimi isolotti di resistenza, induriti nella fornace dei ripetuti attacchi, erano irriducibili. La VI armata era logorata, sfinita, come lo erano state le divisioni di Haig a Passchendaele esattamente un quarto di secolo prima; e da un punto di vista puramente militare l’idea di un’altra « offensiva » nella città era impensabile. Se il Gruppo di Armate B ne avesse avuto la forza, la manovra corretta sarebbe stata quella di attaccare a Voronezh e scalzare il fronte del Don cominciando dall’estremità settentrionale. Ma il gruppo di armate non aveva tale forza; lo spiegamento della Wehr-macht si era tremendamente allungato su un fronte che si era quasi raddoppiato in lunghezza dopo l’inizio della campagna estiva. La Wehrmacht si trovava nella posizione particolarmente pericolosa di essere l’esercito più debole, quello che per compensare la sua inferiorità materiale non aveva altro che l’« iniziativa ». Ma se lo slancio si esauriva i pericoli sarebbero diventati gravissimi, e lo slancio si sarebbe esaurito quando le riserve fossero venute meno.
Naturalmente, questo ragionamento poteva portare a due conclusioni. La prima, e la più ovvia, imponeva un immediato ripiegamento; le perdite dovevano essere ridotte al minimo e ci si doveva attestare su una « linea invernale » molti chilometri più addietro sul fiume Chir, o addirittura sul Mius. L’alternativa, quella da cui i soldati si lasciano spesso convincere, era costituita dalla ben nota « lezione » di Waterloo e della Marna, e cioè che « è l’ultimo battaglione che decide la vittoria ». I tedeschi, che avevano visto quell’inferno bruciare le loro forze una settimana dopo l’altra, non volevano ammettere che il logorio dei russi fosse inferiore al loro. Per molti, e specialmente per Hitler, il parallelo con Verdun era irresistibile. Se un posto assume un’importanza simbolica, la sua perdita può stroncare la volontà dei difensori indipendentemente dal suo interesse strategico. Nel 1916 il rullo compressore di Falkenhayn era stato fermato allorché sarebbe bastato un altro mese per distruggere l’intero Esercito francese. A Stalingrado non c’era in gioco solo la volontà dei russi, ma il riconoscimento mondiale della potenza della Germania. Ritirarsi dal campo di battaglia avrebbe voluto dire ammettere la sconfitta, e ciò, anche se poteva essere accettato dal cervello freddo e calcolatore di un militare di professione, era impensabile « nell’orientamento cosmico delle forze politiche mondiali », come avrebbe detto Schwerin von Krosigk.
L’atteggiamento di Hitler avrebbe potuto cambiare (ma non è del tutto sicuro) se egli avesse ricevuto dei rapporti precisi invece delle cifre errate che Paulus gli mandava. Ma la VI armata, per un comprensibile desiderio di giustificare i rinforzi che venivano chiesti e per sottolineare il peso che stava sostenendo, tendeva a denunciare la presenza di intere divisioni russe laddove esistevano solo reggimenti e addirittura battaglioni, dando per scontata la presenza di tutta la divisione quando veniva individuato un reparto della medesima. Dato il gran numero di unità miste che Chuikov aveva messo insieme nelle diverse parti della città, questo sistema condusse a una valutazione delle forze russe che era cinque o sei volte superiore alla realtà. Oltre a far credere ai tedeschi che essi stavano logorando l’Armata Rossa ad un ritmo più veloce di quanto non si logorassero essi stessi, questo errore di calcolo fece sì che si scartasse la possibilità di una controffensiva russa, dato che i russi non dovevano avere più riserve. Un altro grave errore di cui Weichs e Paulus sono entrambi responsabili fu quello di non essersi preoccupati delle forze romene alle ali. Era già una cattiva cosa cercare di proteggere quelle posizioni vulnerabili con unità che erano male equipaggiate e che si erano dimostrate inferiori alla fanteria russa ordinaria; ancor meno prudente fu l’aver trascurato il coordinamento dei servizi informazione ed esplorazione sul loro fronte ed aver ignorato i periodici avvertimenti inviati dai romeni.
Queste divisioni romene erano inadatte a condurre da sole delle operazioni contro l’Armata Rossa. Erano organizzate sullo schema della divisione di fanteria francese della prima guerra mondiale (ed erano per lo più equipaggiate con materiale francese preso dai tedeschi nel 1940). In ogni divisione c’era una sola compagnia anticarro con i vecchi pezzi da 37 mm. Dopo ripetute richieste inoltrate dal comandante dell’armata, generale Dumitrescu, nel mese di ottobre i romeni ricevettero un’assegnazione di cannoni tedeschi da 75 mm: sei per divisione! Scarseggiavano le munizioni di ogni specie e non c’erano mine moderne anticarro e antiuomo. I romeni erano anche a corto di viveri e di equipaggiamento invernale: un tedesco che visitò le loro linee all’inizio di novembre osservò che « ... la costruzione delle difese è stata trascurata in favore di grandi ricoveri per i comandi e di rifugi per gli uomini e gli animali ».
Questa debolezza, e il fatto che i romeni non erano affatto schierati lungo tutto il Don, ma solo di fronte a una serie di teste di ponte russe, alcune delle quali profonde fino a sedici chilometri, faceva del loro settore il punto ideale per la controffensiva. E così, mentre l’inverno si avvicinava, le prospettive di questa controffensiva divennero l’argomento di parecchie congetture. « L’unica consolazione era che l’intera campagna orientale era stata basata su improvvisazioni apparentemente tanto impossibili e che, in un modo o nell’altro, l’impossibile era sempre stato conseguito. » Quello di cui nessuno sembrò rendersi conto, dallo Stato Maggiore di Paulus fino al Quartier Generale dell’OKW a Vinnitsa, fu la forza dell’imminente attacco russo. La prima positiva indicazione di ciò che bolliva in pentola si ebbe solo il 29 ottobre, quando Dumitrescu mandò a Weichs un rapporto riguardante:
1. il traffico in aumento sul Don nelle retrovie russe
2. le dichiarazioni di disertori
3. i continui attacchi locali, « il cui solo obiettivo deve essere quello di trovare il punto debole e di preparare la strada all’attacco vero e proprio ».
Dopo aver preso alcune misure per constatare la veridicità di tali affermazioni soprattutto per mezzo della ricognizione aerea (che diventava sempre più diffìcile a causa del peggioramento delle condizioni atmosferiche) Paulus si recò al Quartier Generale del gruppo di armate, a Starobelsk, con un rapporto che sottovalutava di molto la forza del concentramento russo.
I dati di Paulus riguardavano unità « chiaramente identificate » a Kletskaya : « tre nuove divisioni di fanteria con alcuni carri armati concentrate presumibilmente nella zona; una nuova formazione corazzata, una nuova motorizzata e due nuove di fanteria ». A Blynov,« due nuove unità di fanteria con alcuni carri ». Stando a queste affermazioni, naturalmente, l’offensiva sovietica non sarebbe stata più violenta delle molte che la Wehrmacht aveva respinto in passato. Ancora il 12 novembre, esattamente una settimana prima che scoppiasse la tempesta, Richthofen (che era un inguaribile ottimista) annotava nel suo diario dopo una ricognizione aerea sulle teste di ponte russe :
Le loro riserve sono state concentrate. Mi chiedo quando attaccheranno. Per il momento sembra che abbiano scarsezza di munizioni [questo perchè l’artiglieria russa non sparava per non rivelare le sue posizioni]. Si cominciano però a vedere i cannoni nelle postazioni di artiglieria. Spero solo che i russi non facciano troppi buchi nella nostra linea!
La maggior parte degli ufficiali di Stato Maggiore del Gruppo di Armate B si preoccupava ancora soprattutto dei preparativi per l’« ultimo sforzo » a Stalingrado. Richthofen afferma che anche Zeitzler era d’accordo con lui : «... Se non riusciremo a chiarire la situazione ora che i russi sono veramente in difficoltà e il Volga è bloccato dai ghiacci, non ci riusciremo mai. » Il capo dello Stato Maggiore Generale sarebbe stato sicuramente di parere molto diverso se avesse saputo che i russi, lungi dall’essere « in difficoltà », avevano concentrato oltre mezzo milione di soldati, 900 nuovi T 34, 230 reggimenti di artiglieria campale e 115 reggimenti di « Katiusce » su un fronte d’attacco inferiore ai sessantacinque chilometri: la più alta densità di uomini e di bocche da fuoco che si fosse mai avuta in tutte le battaglie della campagna orientale.1
Mentre i tedeschi raccoglievano le forze per effettuare l’ultimo tentativo contro gli isolotti di macerie di Stalingrado e alle loro spalle le armate di Zukov prendevano posizione di nascosto, nella città si avevano inquietanti periodi di calma che duravano anche delle ore.
A volte un silenzio, più fastidioso del fragore delle esplosioni, si diffondeva sulla città che sembrava allora come morta. Ma la sorveglianza continuava, sebbene nessuno distinguesse più il giorno dalla notte. Anche nei brevi periodi di calma, da ogni fabbrica, da ogni casa distrutta si osservava tutto con estrema attenzione. Gli occhi acuti dei cecchini spiavano il più piccolo movimento del nemico. Le squadre dei servizi logistici, cariche di mine e di proiettili... si affrettavano lungo i camminamenti che correvano a zig-zag fra le macerie. Nei piani più alti delle case gli osservatori dell’artiglieria stavano sul chi vive. Nelle cantine i comandanti si chinavano sulle mappe, gli scritturali battevano sulle macchine per scrivere, i documenti passavano da un ufficio all’altro, si davano ordini ai soldati. I genieri, impegnati nel loro pericoloso lavoro, scavavano gallerie e cercavano di localizzare quelle del nemico.
Scaramucce locali impegnate al massimo da una compagnia avevano luogo di continuo in quanto ciascuno dei due contendenti cercava di migliorare le proprie posizioni. Un carro tedesco appariva all’angolo di una strada; lentamente cominciava ad avanzare verso gli edifici tenuti dai russi, con i portelli chiusi e l’equipaggio scosso da un tremito nervoso nell’attesa del combattimento. I fanti russi lo guardavano passare, anch’essi tremanti, mentre aspettavano la comparsa degli altri tedeschi. Un altro carro appare all’angolo della strada; si ferma e segue l’avanzare del primo carro brandeggiando lentamente la torretta. Poi, d’improvviso un’esplosione. Un pezzo anticarro russo da 76 all’estremità orientale della strada apre il fuoco; la distanza è inferiore ai cinquanta metri ma sembra che abbia mancato il colpo, e allora d’improvviso la scena si anima in una esplosione di rumori e di gemiti. Il carro tedesco fa immediatamente marcia indietro, l’altro carro ne copre la ritirata sparando subito in direzione del fumo del cannone russo; nello stesso tempo una squadra di soldati tedeschi armati di mitra e di bombe a mano salta fuori dai cunicoli fra le macerie, nei quali aveva avanzato strisciando, e vuota i caricatori contro il cannone anticarro. Mentre ciò avviene, i cecchini russi, che erano rimasti immobili per ore negli anfratti delle case smozzicate, in cima ai cornicioni delle facciate cadenti, pescano i nemici ad uno ad uno. Se l’azione non degenera, se ciascuna delle due parti non chiama in aiuto armi sempre più numerose e più pesanti, in breve si esaurisce e i feriti rimangono a gemere allo scoperto fino a che non fa buio.
Queste giornate « tranquille » erano dominate dai cecchini. Era questa un’arte in cui i russi eccellevano. Tiratori di particolare abilità divennero in breve famosi non solo fra i loro camerati ma anche fra i nemici, e il predominio russo divenne così marcato che il capo della scuola dei franchi tiratori a Zossen, Standartenjùhrer ss Heinz Thorwald, venne mandato a Stalingrado per cercare di ristabilire l’equilibrio. A uno dei migliori tiratori sovietici venne affidato il compito di pescarlo. Egli racconta che
L’arrivo del cecchino nazista ci pose davanti a un nuovo compito; dovevamo trovarlo, studiare le sue abitudini e i suoi metodi e aspettare pazientemente il momento giusto per tirargli un colpo ben diretto : uno e soltanto uno.
Nel nostro rifugio, di notte, discutevamo accanitamente sul duello imminente. Ogni tiratore esponeva le sue idee e le sue supposizioni basate sull’osservazione delle posizioni avanzate del nemico. Venivano discusse le più differenti proposte ed « esche ». Ma l’arte del franco tiratore si distingue per il fatto che, indipendentemente dall’esperienza di molti, il risultato di uno scontro è deciso da un solo tiratore. Egli si incontra col nemico a faccia a faccia, e ogni volta deve creare, inventare, agire in modo diverso. Non ci possono essere sistemi fissi per un cecchino; un sistema fisso sarebbe un suicidio.
Riconoscevo lo stile dei franchi tiratori nazisti dal modo in cui sparavano e si nascondevano e avrei potuto distinguere senza difficoltà il tiratore esperto dal novizio, il vigliacco da quello coraggioso e tenace. Ma il carattere del capo della scuola era ancora un mistero per me. Le nostre osservazioni quotidiane non ci dicevano niente di preciso. Era difficile stabilire in quale settore operasse. Probabilmente cambiava spesso posizione e mi cercava come io cercavo lui. Poi accadde qualcosa. Il mio amico Morozov fu ucciso e Sheykin fu ferito da un fucile munito di mirino telescopico. Morozov e Sheykin erano considerati tiratori esperti; erano spesso usciti vittoriosi dai più diffìcili duelli con il nemico. Ora non c’erano più dubbi. Si erano imbattuti nel « super-cecchino » nazista che io stavo cercando. All’alba mi portai con Nikolay Kulikov nella stessa posizione che i nostri compagni avevano occupato il giorno prima. Osservando le posizioni del nemico, che studiavamo da molti giorni e conoscevamo bene, non scoprii nulla di nuovo. 11 giorno stava per terminare. Poi, al di sopra dell’orlo di una trincea tedesca, apparve un elmetto che si muoveva lentamente. Dovevo sparare? No! Era un trucco: l’elmetto si muoveva un po’ a scatti e probabilmente era sostenuto da qualcuno che aiutava il cecchino, il quale aspettava che io facessi fuoco.
« Dove può essere nascosto? » chiese Kulikov, mentre lasciavamo il rifugio col favore delle tenebre. A giudicare dalla pazienza di cui il nemico aveva dato prova durante la giornata, pensai che dovesse trattarsi del franco tiratore di Berlino. Bisognava essere molto cauti.
Passò una seconda giornata. Chi avrebbe avuto i nervi più saldi? Chi sarebbe stato più furbo?
Nikolay Kulikov, un vero camerata, subiva anche lui il fascino di questo duello. Non aveva dubbi che il nemico fosse davanti a noi e desiderava che vincessimo. Il terzo giorno venne con noi nel rifugio anche l’istruttore politico Danilov. L’alba cominciò come al solito: la luce andò aumentando d’intensità e ad ogni minuto che passava le posizioni del nemico si vedevano sempre più chiaramente. Vicino a noi cominciò un combattimento, i proiettili passavano fischiando sopra le nostre teste ma noialtri, con gli occhi incollati ai mirini telescopici, osservavamo solo quello che accadeva davanti a noi.
« Eccolo! Ora te lo indico! » disse improvvisamente l’istruttore politico tutto eccitato. Imprudentemente si sporse al di sopra del parapetto per un solo secondo, ma questo fu sufficiente perchè il tedesco lo colpisse ferendolo. Un colpo così, naturalmente, poteva essere sparato solo da un tiratore esperto.
Esaminai a lungo le posizioni del nemico ma non riuscii a scoprire il suo nascondiglio. Dalla velocità con cui aveva fatto fuoco, dedussi che il cecchino doveva trovarsi proprio davanti a noi. Continuai ad osservare. Sulla sinistra c’era un carro armato fuori uso e sulla destra una casamatta. Dove stava? Nel carro armato? No, un tiratore esperto non avrebbe scelto quel posto. Forse nella casamatta? Nemmeno: la feritoia era ostruita. Fra il carro armato e la casamatta, su un tratto di terreno piano, c’era una lastra di ferro e una piccola catasta di mattoni. Era lì da molto tempo e ci eravamo abituati a vederla. Mi misi nei panni del nemico e pensai: quale posto migliore per un cecchino?
Bastava solo praticare una piccola feritoia sotto la lastra di metallo e poi scivolare fin lì durante la notte.
Sì, doveva essere senza dubbio laggiù, sotto la lastra di metallo nella terra di nessuno. Volli accertarmene. Misi un guanto in cima ad un pezzo di legno e lo alzai. Il nazista sparò. Tirai giù il pezzo di legno avendo cura di tenerlo nella stessa posizione ed esaminai il foro del proiettile. Era penetrato proprio diritto; ciò significava che il nazista stava sotto la lastra di metallo.
« Ecco la nostra vipera! » mi sussurrò Nikolay Kulikov dal suo nascondiglio che era vicino al mio.
Ora c’era il problema di fare entrare anche una parte della sua testa nel mio campo di tiro. Era impossibile cercare di farlo in fretta. Ci voleva del tempo. Ma io ero riuscito a studiare il temperamento del tedesco. Non avrebbe lasciato la buona posizione che aveva trovato. Dovevamo perciò essere noi a cambiare posizione.
Lavorammo durante la notte e all’alba eravamo pronti. I tedeschi sparavano sui traghetti del Volga. Fece giorno rapidamente e con le prime luci dell’alba la battaglia aumentò d’intensità. Ma nè il crepitio dei fucili nè le esplosioni delle granate e delle bombe, nulla insomma, riusciva a distrarci dal nostro compito.
Il sole si levò. Kulikov tirò un colpo a casaccio. Dovevamo risvegliare la curiosità del cecchino. Avevamo deciso di lasciar passare la mattinata fintanto che i raggi del sole non battessero più sulle lenti dei nostri telescopi. Dopo mezzogiorno i nostri fucili erano in ombra e il sole batteva direttamente sulla posizione del tedesco. All’estremità della lastra di metallo c’era qualcosa che scintillava: un pezzo di vetro o la lente del telescopio? Kulikov cominciò con molta cura a sollevare il suo elmetto, come lo sa fare solo chi ha una grande esperienza. Il tedesco fece fuoco. In una frazione di secondo Kulikov si alzò e urlò. Il tedesco credette di avere finalmente colpito il cecchino sovietico cui aveva dato la caccia per quattro giorni e levò a metà la testa da sotto la lastra di metallo. Era quello che stavo aspettando. Presi attentamente la mira. La testa del tedesco si piegò indietro e il telescopio del suo fucile rimase immobile, luccicando al sole finché non cadde la notte...
In occasione dell’ultima offensiva della VI armata erano state cambiate sia l’organizzazione che la tattica. Le divisioni Panzer in pratica non esistevano più in quanto i carri erano stati divisi in compagnie e dati in appoggio alla fanteria. Erano giunti in volo nella città altri quattro battaglioni guastatori che dovevano essere usati come punte avanzate di quattro diversi attacchi che miravano a completare lo spezzettamento delle linee dei difensori. Gli ultimi « rettangoli », come venivano chiamati, sarebbero stati poi polve-rizzati dal fuoco concentrato dell’artiglieria. La vecchia e dispendiosa tecnica del combattimento casa per casa, in cui una intera compagnia poteva logorarsi sulle scale, sui balconi, sugli attici e nei corridoi di un unico edificio, fu impiegata solo come ultima risorsa. La fanteria di entrambi i contendenti era sottoterra : nelle cantine, nelle fogne, nei condotti, nei tunnel, che costituivano le appendici del campo di battaglia. Solo i carri armati strisciavano lentamente in superficie, osservati dai cecchini nascosti nei loro precari rifugi.
L’attacco di Paulus, che cominciò l’11 novembre, fu altrettanto mal guidato e disperato dell’ultima offensiva invernale del Gruppo di Armate Centro contro Mosca dodici mesi prima. Nel giro di quarantott’ore era degenerato in una serie di violenti scontri sotterranei privi di un coordinamento centrale. Molti piccoli gruppi di tedeschi riuscirono a coprire i duecento metri che li separavano dal Volga, ma arrivati al fiume si trovarono tagliati fuori dai russi che ritornarono sui loro passi attraverso gli stretti cunicoli che avevano scavato. Per altri quattro giorni combattimenti d’inaudita ferocia divamparono fra questi gruppi isolati. Non venivano più presi prigionieri e i combattenti avevano poche speranze di sopravvivere. Riempiti di alcool e di benzedrina, con la barba lunga, sfiniti a causa dei molti giorni passati senza dormire e senza un attimo di tregua, sembravano dominati dall’unico ossessionante scopo di giungere al combattimento a corpo a corpo, di gettarsi alla gola gli uni degli altri.
Il 18 novembre la stanchezza e la scarsezza di munizioni imposero una sosta. Durante la notte, il crepitio delle armi portatili e lo scoppio dei mortai si spensero e dalle due parti si cominciarono a recuperare i feriti. Poi, quando l’alba cominciò a illuminare le nubi di fumo, un nuovo terribile rumore piombò sugli ultimi focolai della battaglia di Stalingrado: il tuonante sbarramento dei duemila cannoni di Voronov a nord. Tutti i tedeschi che lo sentirono, capirono che faceva presagire qualcosa di nuovo.
L’artiglieria russa, sebbene fosse stata sempre molto buona, non aveva però l’abitudine di prolungare il fuoco per lunghi periodi di tempo. Ma quel giorno [19 novembre] fu diverso... Un continuo martellamento sin dall’alba, accompagnato dal sibilo di una scarica di « Katiuscia » ogni minuto circa.
Alle 9,30 di mattina del 19 il frastuono venne aumentato dai cannoni di Tolbukhin, Trufanov e Shumilov che scattavano dalle loro posizioni a sud, mentre gli ufficiali della VI armata cominciavano a rendersi conto delle dimensioni del contrattacco russo e della minaccia che esso creava per l’intera posizione tedesca.
Paulus aveva già preso due misure per « affrontare » la minaccia russa dopo che il 9 novembre era giunto a una valutazione (disastrosamente imprecisa) delle forze e delle intenzioni russe. L’armata romena era stata rinforzata con un gruppo d’appoggio comandato dal colonnello Simons, e il XLVIII corpo d’armata Panzer era stato trasferito nella piccola ansa del Don come riserva mobile. Il gruppo di Simons comprendeva un battaglione di Panzergrenadiere con una compagnia anticarro e alcuni pezzi di artiglieria pesante. Il corpo d’armata Panzer aveva a malapena gli effettivi di una divisione e 92 dei suoi 147 carri erano 38-t cecoslovacchi guidati da romeni. La XIV Panzer, con altri 51 Mark iv, era stata anch’essa aggregata al corpo d’armata, ma era così disorganizzata in seguito ai combattimenti sostenuti nelle strade che, quando cominciò l’offensiva russa, il suo ritiro dal fronte della città non era stato ancora completamente effettuato.
Durante tre giorni, dal 19 novembre alla sera del 22, il fronte tedesco e romeno si ruppe per una lunghezza di oltre ottanta chilometri a nord e cinquanta a sud. Nella breccia Zukov fece passare sei armate, eliminando la resistenza di alcune sacche e neutralizzando gli sforzi del gruppo di Simons e del mal ridotto XLVIII corpo d’armata Panzer. Lo Stato Maggiore della VI armata passò due notti insonni per cercare di raggruppare i preziosi carri armati e di ritirare la fanteria dal labirinto fumante di Stalingrado per inviarla a proteggere le ali che cedevano. Nelle retrovie di Paulus la confusione era assoluta; la ferrovia che giungeva da Kalach, a occidente, era stata già tagliata in tre punti dalla cavalleria russa; il rumore degli spari giungeva da ogni direzione, e di quando in quando si verificavano scaramucce fra i tedeschi che andavano verso il fronte e gruppi mal ridotti di romeni che si ritiravano senza più una guida. Il grosso ponte di Kalach, sul quale passava ogni chilo di viveri ed ogni proiettile destinato alla VI armata, era stato minato e il 23 novembre un plotone di genieri vi montò la guardia tutto il giorno, nel caso giungesse l’ordine di farlo saltare.
Alle quattro e mezzo del pomeriggio si sentirono dei carri armati avvicinarsi da occidente. Il tenente che comandava i genieri pensò dapprima che potessero essere russi, ma si tranquillizzò quando vide che i primi tre veicoli erano dei semicingolati Horch con i distintivi della 22a divisione Panzer; pensando che si trattasse di una colonna di rinforzi per Stalingrado, diede l’ordine ai suoi uomini di alzare la barriera. I semicingolati si fermarono all’imboccatura del ponte e ne uscirono sessanta russi che uccisero la maggior parte dei genieri a colpi di mitra facendo prigionieri i sopravvissuti. Le cariche di esplosivo vennero disinnescate e venticinque carri della colonna attraversarono il ponte, puntando verso sud-est, e quella sera stessa si congiunsero con la 14* brigata corazzata indipendente appartenente alla LI armata di Trufanov. In tal modo, veniva saldato il primo sottile anello di una catena che doveva rinserrali duecentocinquantamila soldati tedeschi. La seconda guerra mondiale era giunta a una svolta decisiva.
NOTE:
1 II complesso delle forze corazzate fu suddiviso in quattro corpi d’armata corazzati, tre corpi d’armata motorizzati e quattordici brigate carriste « indipendenti ». Le forze d’attacco erano la V armata corazzata, parte della I armata Guardie e la XXI armata. Nel Sud, la LVII armata, la LI armata e la resuscitata LXIV armata (per gli schieramenti si vedano le cartine).