VERDUN SUL VOLGA
brano tratto da A.Clark -"Barbarossa", Garzanti, 1965
I combattimenti della campagna orientale coprono l’intera gamma delle esperienze militari. La durezza e la ferocia delle cariche di cavalleria differiscono poco da quelle del Medioevo; l’angoscia e le privazioni di interminabili bombardamenti nelle trincee maleodoranti ricordano la grande guerra. Tuttavia il carattere dominante del fronte russo è di natura composita. La guerra di manovra si alterna con episodi di selvaggia lotta a corpo a corpo in un modo che fa pensare sia al deserto occidentale che agli scontri sotterranei di Fort Vaux.1
Senza dubbio la tremenda battaglia che doveva essere combattuta a Stalingrado trova il suo parallelo più calzante negli orrori della « macchina tritacarne » di Falkenhayn a Verdun. Ma ci sono delle differenze importanti. A Verdun gli avversari quasi mai si trovarono a faccia a faccia. Venivano fatti a pezzi dall’alto esplosivo o falciati dal fuoco delle mitragliatrici. A Stalingrado ogni battaglia si risolveva in un combattimento fra singoli individui. Da un lato all’altro della strada i soldati delle due parti si insultavano e si maledicevano; spesso mentre ricaricavano le armi sentivano il respiro affannoso del nemico nella stanza accanto ; i duelli a corpo a corpo si concludevano fra nubi di fumo e di polvere, con coltelli e piccozze, a colpi di mazze di legno trovate fra le macerie o di cavi d’acciaio.
Per i tedeschi, quando si trovavano ancora nei sobborghi, era possibile sfruttare il vantaggio che derivava dalla loro superiorità in fatto di carri armati e di aviazione. Le case erano di legno ed erano state tutte distrutte durante la grande incursione aerea del 23 agosto. I combattimenti si svolgevano in una gigantesca foresta pietrificata di camini anneriti, dove i difensori non trovavano altro riparo se non i resti dei bungalow di legno compensato e delle baracche operaie che circondavano la città. Ma a mano a mano che i tedeschi si addentravano sempre più nella zona delle fognature, dei mattoni e del cemento, il loro vecchio piano di operazioni perdeva valore. Il generale Doerr ha detto che
il tempo di condurre operazioni su larga scala era passato per sempre; dagli ampi spazi della steppa la guerra si era trasferita nelle strettoie delle colline del Volga, con i loro boschetti e le loro gole, nella zona industriale di Stalingrado, che si stendeva sul terreno ineguale e tormentato, coperto di ferro, di cemento e di edifici di pietra. Il chilometro, come misura delle distanze, era sostituito dal metro. La mappa del Quartier Generale era la mappa della città.
Per ogni casa, per ogni officina, per ogni serbatoio d’acqua, per ogni banchina ferroviaria, per ogni muro, per ogni cantina, per ogni ammasso di macerie, veniva ingaggiata un’accanita battaglia che non trovava uguali nemmeno nella prima guerra mondiale con il suo enorme dispendio di munizioni. La distanza fra l’Esercito nemico e il nostro era minima. Nonostante l’attività concentrata dell’Aviazione e dell’artiglieria fu impossibile uscire dalla zona del combattimento ravvicinato. I russi sopravanzavano i tedeschi nello sfruttamento del terreno e nella mimetizzazione ed erano più esperti nella guerra di barricate per la conquista di singoli edifici...
Se la battaglia ebbe uno schema tattico, questo s’incentrò sul possesso dei guadi del Volga che costituivano la via di rifornimento della guarnigione. Infatti, se i russi tenevano la loro artiglieria di grosso e di medio calibro sulla sponda orientale, consumavano enormi quantità di munizioni per armi di piccolo calibro e bombe da mortaio e dipendevano dal traffico attraverso il Volga per molti altri servizi essenziali allo spirito combattivo della guarnigione, servizi che andavano dai rifornimenti di vodka all’evacuazione dei feriti. La leggera curva descritta dal fiume e le numerose isolette che lo costellavano fra Rynok e Krasnaya Sloboda resero molto difficile prendere d’infilata tutti i guadi anche dopo che i cannoni furono installati sulla sponda destra, e quasi impossibile farlo di notte quando si svolgeva il maggior volume di traffico. I tedeschi tardarono a rendersi conto di ciò e invece di consacrare tutte le loro energie ad attaccare i punti estremi delle posizioni russe avanzando da monte e da valle lungo la sponda del fiume — una tattica che, se attuata con successo, avrebbe finito per lasciare la guarnigione tagliata fuori al centro su un’isola di macerie — dispersero i loro sforzi in punti diversi della città, adottando il metodo piuttosto costoso di liquidare un isolato dopo l’altro. Ciascuna delle tre grandi « offensive » sferrate durante l’assedio mirava a penetrare nella sottile striscia di terreno tenuta dai russi e a raggiungere il Volga nel maggior numero possibile di punti. Il risultato fu che, anche dove raggiunsero il loro scopo, gli attaccanti si trovarono impigliati in una rete di capisaldi nemici, mentre i corridoi di accesso erano troppo stretti per fare delle truppe che si trovavano alle estremità qualcosa di diverso da un semplice peso morto.
Se la Luftwaffe fosse stata impiegata con continuità in un ruolo di « interdizione » (nel senso, cioè, in cui il termine finì per essere inteso nell’occidente), i guadi sul Volga avrebbero potuto essere interrotti. Senza dubbio Richthofen, se avesse avuto istruzioni appropriate, avrebbe potuto fare qualcosa di più circa le batterie russe da 76 mm sulla sponda orientale, il cui fuoco impediva alla VI armata di operare troppo vicino al fiume. Rimane comunque il fatto che, mentre i russi dimostrarono grande abilità e versatilità nell’adattare la loro tattica agli sviluppi della battaglia, Paulus ne sbagliò l’impostazione fin dall’inizio. I tedeschi rimasero confusi da una situazione che non rientrava nella loro esperienza militare e reagirono in un modo caratteristico, impiegando cioè in dosi sempre più massicce la forza bruta.
Questa confusione andava dagli alti ufficiali al soldato semplice. Hoffmann (il diarista di cui sono già state citate le parole di esultanza per l’incursione terroristica del 23 agosto) riflette questo atteggiamento negli epiteti che affibbia ai difensori e che passano progressivamente dall’incredulità e dal disprezzo alla paura e infine all’autocommiserazione.
i° settembre: « Cosa vogliono fare i russi? Combattere fino alla sponda del Volga? È una pazzia. »
8 settembre : «... folle testardaggine. »
11 settembre : «... fanatici. »
13 settembre: « ... bestie feroci. »
16 settembre: «Barbarie... [essi non sono] uomini ma diavoli.»
26 settembre : «... barbari, usano metodi da gangster. »
Per un mese non vi sono altri apprezzamenti sul nemico, ma durante questo periodo le annotazioni sono piene di tristezza per il destino dello scrivente e dei suoi compagni d’arme.
27 ottobre: « ... I russi non sono uomini, ma sono fatti di ferro; non sono mai stanchi e non hanno paura del fuoco. »
28 ottobre: « Ogni soldato si considera un condannato. »
Quando Paulus tornò al suo Quartier Generale dopo il colloquio con Hitler del 12 settembre, l’ora X della sua terza offensiva era vicina. Questa volta la VI armata impiegava undici divisioni di cui tre corazzate. I russi avevano solo tre divisioni di fanteria, alcuni reparti di altre quattro divisioni e due brigate corazzate. Questa diminuzione delle forze dei difensori era il risultato del successo conseguito da Hoth nella sua penetrazione fino al Volga a Kuporosnoye, un sobborgo di Stalingrado, e quindi della separazione della LXII dalla LXIV armata. Cinque giorni prima, il 4 settembre, i carri armati di Hoth avevano per la prima volta tagliato in due la LXIV armata raggiungendo il Volga a Krasnoarmeisk, e il grosso delle forze russe, che si era logorato durante sei settimane di continui combattimenti contro il miglior Panzergruppe dell’intero Esercito tedesco, si trovò inchiodato su una striscia di circa venti chilometri lungo la massicciata della ferrovia Stalingrado-Rostov. Il giorno dopo la presa di Kuporosnoye da parte della 14** divisione Panzer, Chuikov venne inviato a comandare l’isolata LXII armata. Quella notte egli attraversò il fiume in battello partendo da Beketovka e, dopo un angoscioso viaggio in jeep lungo la sponda sinistra del fiume per recarsi a rapporto da Kruscev e Yeremenko al Quartier Generale del « fronte » a Yamy, prese all’alba il traghetto per passare da Krasnaya Sloboda nella città in fiamme.
Da ventiquattro ore Stalingrado si trovava sotto il bombardamento continuo dell’artiglieria della VI armata che spianava la strada all’assalto concentrico di Paulus. Mentre il traghetto si avvicinava all’approdo, schegge di granata e pallottole morte di shrapnel schizzavano nell’acqua scura « come trote », e la temperatura aumentava di parecchi gradi a causa delle fiamme. Chuikov rifletté che :
Chiunque non avesse avuto esperienza di guerra avrebbe potuto pensare che nella città in fiamme non ci fosse più vita, che tutto fosse stato distrutto e bruciato... Ma io sapevo che dall’altra parte del fiume si combatteva, che era in corso una lotta titanica.
Paulus aveva concentrato due « forze d’urto » che avevano il compito di convergere sulla parte meridionale della città e di riunirsi nel cosiddetto « approdo centrale » di fronte a Krasnaya Sloboda. Tre divisioni di fanteria, la 71% la y6a e la 295% dovevano muoversi dalla stazione ferroviaria di Gumrak, prendere l’ospedale principale e giungere a Matveyev Kurgan. Un gruppo ancora più forte, formato dalla 94* divisione di fanteria e dalla 29* motorizzata, doveva attaccare a nord-est dal distretto minerario della Yelshanka, appoggiato dalla i4a e dalla 24a divisione Panzer.
A Chuikov erano rimasti solo quaranta carri efficienti, ma la maggior parte di questi non erano più mobili perchè erano stati interrati in modo da funzionare come fortini. Egli aveva ancora una piccola riserva di carri armati costituita da diciannove KV, che non erano stati ancora impegnati, ma non aveva alcuna riserva di fanteria perchè ogni uomo in grado di portare un fucile era stato gettato nella battaglia. Il predecessore di Chuikov, il generale Lopatin, si era (a suo dire) convinto della « impossibilità e inutilità di difendere la città » e questo senso di avvilimento
si era indubbiamente comunicato ai suoi subordinati... col pretesto di malattie tre dei miei comandanti [artiglieria, carri armati e genio] erano ritornati sulla sponda opposta del Volga.
Il problema difensivo era quadruplice : innanzitutto era essenziale mantenere i fianchi saldamente ancorati alla sponda del fiume. Ogni metro delle rive scoscese del Volga era prezioso per i russi che vi avevano scavato alloggiamenti, ospedali da campo, depositi di munizioni e di carburanti e perfino rimesse per i camion delle « Katiusce » che in meno di cinque minuti uscivano dalle grotte, sparavano una salva e ritornavano al coperto. L’ala settentrionale al di sotto di Rynok era la più forte delle due, perchè qui si trovavano gli edifici di cemento, praticamente indistruttibili, delle fabbriche Trattore, Barricata e Ottobre Rosso. All’estremità meridionale, invece, gli edifici erano meno robusti e il terreno era relativamente aperto, movimentato solo da cumuli di macerie e da qualche tratto di brughiera devastata dominata dalle torri degli elevatori di grano. Per di qui, inoltre, passava la strada più breve che conduceva all’approdo centrale lungo il corso del ruscello Tsaritsa e al centro nevralgico del sistema difensivo di Stalingrado, il posto di comando di Chuikov, situato in una trincea, conosciuta come il « bunker Tsaritsyn », scavata al limite del letto del fiume presso il ponte di via Pushkin.
Il pericolo di concentrare le proprie forze alle estremità era che il lunghissimo fronte occidentale di Chuikov (oltre sedici chilometri da Rynok a Kuporosnoye a volo d’uccello e il doppio seguendo le « linee ») sarebbe diventato vulnerabile a un assalto concentrato su un fronte ristretto e in particolare Matveyev-Kurgan, una collinetta erbosa che dominava il centro della città, avrebbe potuto essere conquistata dal nemico prima che giungessero i rinforzi.
Chuikov aveva chiesto urgenti rinforzi di fanteria a Yeremenko il 13 settembre, quando Paulus sferrò il suo attacco, e durante la notte apprese che la 13a divisione fanteria Guardie, un’unità molto forte agli ordini del generale Rodimtsev (il quale aveva fatto le sue prime esperienze di combattimenti per le strade nella città universitaria di Madrid nel 1936), sarebbe stata traghettata a partire dall’imbrunire del giorno seguente. Tuttavia, durante il pomeriggio del 14 settembre l’attacco centrale di Paulus riuscì a sfondare il fronte russo dietro l’ospedale e la 76* divisione fanteria si riversò nelle zone retrostanti della città tenute solo da alcuni franchi tiratori.
Autocarri carichi di soldati e carri armati penetrarono nella città. I tedeschi ovviamente pensavano che il destino della città fosse segnato e si misero a correre verso il centro e verso il Volga afferrando dei souvenir da riportare in patria... vedemmo tedeschi ubriachi saltare giù dagli autocarri, mettersi a suonare delle armoniche a bocca, gridare come pazzi e danzare in mezzo alle strade.
Per bloccare questa irruzione Chuikov si servì dell’ultima riserva di carri armati, il che significava trasferirli alla luce del giorno dal settore meridionale che era a sua volta sottoposto a una forte pressione. Gli ufficiali del suo stesso Stato Maggiore e la compagnia d guardia al bunker dovettero impegnarsi nei combattimenti che infuriarono per tutta la notte. Alcuni soldati tedeschi riuscirono ad infiltrarsi fino a centocinquanta metri dal bunker Tsaritsyn e piazzarono le mitragliatrici pesanti con le quali fecero fuoco sull’approdo centrale. Chuikov si trovò di nuovo davanti alla prospettiva di vedersi spezzare in due il fronte; per contro, spostare altre truppe dal settore meridionale del perimetro avrebbe potuto portare al crollo dell’intera posizione da quella parte.
A questo punto la tattica tedesca, sebbene dispendiosa ed elementare, si rivelava estremamente logorante per difese così poco profonde come erano quelle della LXII armata nei primi giorni in cui Chuikov assunse il comando. I tedeschi impiegavano i carri armati in gruppi di tre o quattro alla volta in appoggio a ciascuna compagnia di fanteria. I russi non sparavano mai ai carri armati, ma li lasciavano passare attraverso il campo di tiro dei cannoni anticarro e dei T 34 interrati che si trovavano più indietro; perciò i tedeschi dovevano sempre mandare avanti la fanteria per costringere il nemico a sparare. Una volta che la posizione era stata individuata, i carri armati, coprendosi gli uni con gli altri, facevano fuoco a zero fino a che l’edificio non cadeva in pezzi. Quando le costruzioni erano alte e resistenti la faccenda diventava lunga e complicata. I proiettili perforanti non servivano perchè passavano attraverso i muri limitandosi a fare dei buchi di sessanta centimetri. D’altra parte, non si poteva correre il rischio di mandare fuori i carri armati solo con munizioni ad alto esplosivo perchè ciò voleva dire lasciarli alla mercè di qualche T 34 che fosse comparso improvvisamente sulla scena. Inoltre, per quanto il fuoco dei carri armati riducesse come colabrodi i primi due piani, la limitata elevazione della torretta faceva sì che il resto dell’edificio rimanesse indenne nel caso che gli ultimi piani non prendessero fuoco.
Ci voleva un giorno intero per ripulire una strada da un capo all’altro, per stabilire blocchi e capisaldi all’estremità occidentale, per prepararci a tagliare un’altra fetta il giorno successivo. Ma all’alba i russi ricominciavano a sparare dalle loro vecchie posizioni! Ci mettemmo qualche tempo per scoprire il trucco; essi avevano praticato dei passaggi attraverso le soffitte e gli attici e durante la notte, come topi, tornavano indietro e mettevano in postazione le loro mitragliatrici su qualche finestra elevata o su qualche camino rotto...
Gli equipaggi dei carri armati non avevano molta voglia di condurre le loro macchine nelle strade strette dove il ponte posteriore dalla leggera corazzatura avrebbe potuto essere perforato da fucili anticarro o bombe a mano gettate dall’alto. Fu necessario accompagnare ogni attacco con squadre di lanciafiamme, in modo da incendiare gli edifici, ma si trattava di una operazione estremamente rischiosa in quanto bastava un solo proiettile per ridurre l’uomo che manovrava il lanciafiamme in una torcia vivente. Vennero accordate delle paghe speciali,2 ma fu lo stesso impossibile ottenere un numero sufficiente di volontari senza far ricorso ai battaglioni di punizione.
Tuttavia, durante i primi giorni della loro offensiva di settembre i tedeschi ebbero una superiorità di tre a uno in fatto di uomini, di oltre sei a uno in fatto di carri armati, mentre la Luftwaffe aveva il dominio completo del cielo. Fra il 14 e il 22 settembre, allorché la VI armata era ancora relativamente fresca e i russi si difendevano con i resti delle unità che erano state duramente provate nei precedenti combattimenti, si ebbe il periodo di maggior pericolo per Stalingrado.
Durante la notte del 14 settembre l’intera linea difensiva cominciò a scricchiolare a tal punto che la divisione di Rodimtsev dovette essere mandata in linea battaglione per battaglione non appena gli uomini si raggruppavano dopo essere sbarcati dai traghetti. Il risultato fu che la divisione si trovò dispersa sopra un’ampia area e che molti uomini si trovarono all’alba tagliati fuori in uno strano, desolato paesaggio di fumo e di macerie. Tuttavia anche in questo caso il tenace rifiuto dei russi di arrendersi finché avessero ancora munizioni ebbe la sua parte nel ritardare l’avanzata tedesca. Il racconto di un ufficiale appartenente alla 3* compagnia del 420 reggimento, sebbene il suo stile un po’ enfatico possa stonare alle orecchie occidentali, merita di essere citato estesamente perchè illustra le condizioni in cui si svolgevano i combattimenti per le strade e lo spirito dei difensori. A un certo punto si erano trovati tagliati fuori.
... Ripiegammo, occupando gli edifici, uno dopo l’altro e trasformandoli in capisaldi. I soldati sgusciavano fuori dalle posizioni occupate solo quando la terra sotto di loro era in fiamme e gli abiti cominciavano a fumare. Durante il giorno i tedeschi riuscirono ad occupare solo due isolati.
All’incrocio della via Krasnopiterskaya e della Komsomolskaya occupammo un edificio di tre piani sull’angolo. Era un’ottima posizione dalla quale potevamo sparare da tutte le parti e divenne la nostra ultima difesa. Ordinai che venissero barricate tutte le entrate e feci sistemare le finestre e le brecce dei muri in modo che vi si potesse sparare attraverso con le armi che ci rimanevano. Ad una finestra stretta del seminterrato sistemammo la mitragliatrice pesante con l’ultima scorta di munizioni, l’ultimo nastro di cartucce. Avevo deciso di usarlo nel momento più critico.
Due gruppi, di sei uomini ciascuno, salirono al terzo piano e nel solaio. Il loro compito era quello di abbattere i muri per preparare blocchi di pietra e pezzi di travature da gettare sui tedeschi quando si fossero avvicinati. Nel sotterraneo venne preparato un posto per i feriti gravi. La nostra guarnigione consisteva di quaranta uomini. Cominciarono giorni difficili... Il sotterraneo era pieno di feriti; c’erano ancora dodici uomini in grado di combattere. Non avevamo più acqua. Da mangiare non c’era rimasto altro che qualche chilo di grano; i tedeschi decisero di prenderci con la fame. I loro attacchi s’interruppero ma essi continuarono a sparare con le mitragliatrici pesanti per tutto il tempo... I tedeschi attaccarono di nuovo. Corsi di sopra con i miei uomini e potei scorgere le loro facce affilate, annerite e tese dalla fatica, le fasciature sulle ferite sporche e macchiate di sangue, le armi impugnate strette. Non c’era paura nei loro occhi. Lyuba Nesterenko, un’infermiera, stava morendo, il sangue scorreva a fiotti da un ferita che aveva in petto. Aveva in mano un rotolo di garza. Prima di morire volle aiutare a fasciare la ferita di un soldato, ma venne meno...
L’attacco tedesco fu respinto. Nel silenzio che piombò su di noi potevamo sentire il frastuono degli aspri combattimenti in corso per Matveyev Kurgan e nella zona industriale della città.
Come potevamo aiutare gli uomini che difendevano la città? Come potevamo distrarre da quel settore anche una parte delle forze nemiche che avevano smesso di attaccare il nostro edificio?
Decidemmo di alzare sulla casa una bandiera rossa così che i tedeschi non pensassero che ci eravamo arresi. Ma non avevamo della stoffa rossa. Comprendendo quello che volevamo fare, uno dei soldati, che era gravemente ferito, si strappò la camicia insanguinata e dopo essersela passata sul sangue che sgorgava dalla ferita, me la porse.
I tedeschi gridavano attraverso il megafono: «Russi! Arrendetevi! Tanto morirete lo stesso! »
In quel momento una bandiera rossa si levò sul nostro edificio.
« Abbaiate, cani! Abbiamo ancora molto da vivere! » gridò il mio attendente Kozhushko.
Respingemmo l’attacco successivo con lanci di pietre, con qualche raffica e gettando le nostre ultime bombe a mano. Improvvisamente da dietro un muro venne il rumore dei cingoli di un carro armato. Non avevamo bombe anticarro. Tutto quello che ci rimaneva era un fucile anticarro con tre granate. Porsi il fucile all’armiere Berdyshev e lo mandai attraverso il retro a sparare a zero contro il carro armato. Ma prima che potesse mettersi in posizione venne preso dai tedeschi. Non so quello che Berdyshev disse ai tedeschi, ma immagino che indicò loro la strada del giardino perchè un’ora più tardi cominciarono ad attaccare esattamente in quel punto in cui io avevo messo la mitragliatrice con l’ultimo nastro di cartucce.
Questa volta, pensando che avessimo finito le munizioni, vennero avanti con sfacciataggine, in piedi e gridando. Venivano giù per la strada in una colonna serrata. Misi l’ultimo nastro nella mitragliatrice pesante piazzata alla finestra del seminterrato e scaricai tutti e duecentocinquanta i proiettili nel groviglio grigioverde e urlante dei nazisti. Fui ferito a una mano ma non lasciai andare la mitragliatrice. I cadaveri si ammucchiarono sul terreno. I tedeschi ancora vivi corsero a ripararsi in preda al panico. Un’ora più tardi portarono il nostro armiere su un cumulo di macerie e lo fucilarono davanti ai nostri occhi perchè aveva indicato loro la strada che portava diritto alla mia mitragliatrice.
Non ci furono più attacchi. Un diluvio di bombe cadde sull’edificio. I tedeschi ci bersagliavano con ogni arma possibile. Non potevamo nemmeno sollevare il capo.
E di nuovo sentimmo il funesto rumore dei carri armati. Da dietro un isolato vicino al nostro cominciarono a sgusciare fuori i pesanti carri armati tedeschi. Questa, evidentemente, era la fine. I soldati si salutarono l’un l’altro. Con il pugnale, il mio attendente incise su un muro : « Le guardie di Rodimtsev combatterono e morirono qui per il loro paese. »
Il 21 settembre entrambi i contendenti erano sfiniti. I tedeschi avevano ripulito tutto il letto del fiume Tsaritsa e avevano messo in postazione le loro armi a pochi metri dall’approdo centrale. Essi erano riusciti anche a penetrare in un’ampia zona di circa quattro chilometri quadrati dietro la stazione principale di Stalingrado tra le gole dello Tsaritsa e del Krutoy. Chuikov era stato costretto a trasferire il suo Quartier Generale dal bunker Tsaritsyn a Matveyev-Kurgan e, dato che l’approdo centrale era ormai inutilizzabile, la guarnigione dipendeva ormai interamente dai traghetti della fabbrica all’estremità settentrionale della città.
A questo punto i tedeschi furono quasi sul punto di conquistare il controllo completo della intera metà meridionale della città, per lo meno fino alla gola del Krutoy, in quanto solo una unità russa, la 92a brigata di fanteria, combatteva ancora a sud della Tsaritsa. Ma le forze di Hoth si trovarono seriamente impedite da un certo numero di centri’ isolati di resistenza che erano stati lasciati indietro dopo il primo attacco delle forze corazzate il 130 14 settembre. Questi capisaldi erano raggruppati soprattutto intorno ai giganteschi elevatori di grano; possediamo i diari degli uomini che sostennero, da una parte e dell’altra, uno di questi scontri.
Prima la testimonianza tedesca :
16 settembre. Il nostro battaglione, appoggiato da carri armati, attacca l’elevatore dal quale esce del fumo; il grano brucia, sembra che i russi gli abbiano dato fuoco. Barbari. Il battaglione patisce gravi perdite. Non rimangono più di sessanta uomini per compagnia. L’elevatore è occupato non da uomini ma da diavoli che nè i lanciafiamme nè i proiettili possono uccidere.
18 settembre. I combattimenti continuano dentro l’elevatore. I russi sono condannati. Il comandante del battaglione dice : « I commissari hanno ordinato a quegli uomini di morire nell’elevatore. »
Se tutti gli edifici di Stalingrado sono difesi in questo modo, nessuno dei nostri tornerà in Germania. Oggi ho ricevuto una lettera da Elsa. Mi aspetta a casa dopo la vittoria.
20 settembre. La battaglia per l’elevatore continua. I russi sparano da tutte le parti. Noi rimaniamo nello scantinato; non possiamo uscire in strada. Il’ser-gente maggiore Nuschke è stato ucciso oggi mentre attraversava di corsa la strada. Poveraccio, aveva tre figli.
22 settembre. La resistenza russa nell’elevatore è stata spezzata. Le nostre truppe avanzano verso il Volga. Abbiamo trovato circa quaranta russi morti nell’elevatore. La metà di loro indossava uniformi della marina. È stato preso un solo prigioniero gravemente ferito, che non può parlare o fa finta di non poter parlare.
Il prigioniero « gravemente ferito » era Andrey Khozyaynov, della brigata di fanteria marina e la sua versione dà un’idea interessante del carattere assunto dai combattimenti nelle strade di Stalingrado, dove il coraggio individuale e la tenacia di alcuni soldati e sottufficiali, spesso isolati e dati per perduti dai loro stessi comandi, potè influenzare l’intero sviluppo della battaglia.
La nostra brigata venne traghettata al di là del Volga durante la notte del 16 settembre e all’alba del 17 era già in azione.
Ricordo che la notte del 17, dopo un aspro combattimento, venni chiamato al comando del battaglione e mi venne dato l’ordine di andare con un plotone di mitraglieri all’elevatore e di tenerlo a qualunque costo insieme con gli uomini che vi si trovavano già. Arrivammo quella stessa notte e ci presentammo al comandante della guarnigione. In quel momento l’elevatore era difeso da un battaglione composto da non più di trenta o trentacinque soldati della guardia compresi i feriti, alcuni leggeri, altri gravi, che non era stato possibile trasportare nelle retrovie.
I soldati della guardia furono molto contenti di vederci arrivare e ci accolsero con scherzi e risate. Con il nostro plotone erano arrivati diciotto uomini bene armati. Avevamo due mitragliatrici di medio calibro e una mitragliatrice leggera, due fucili anticarro, tre mitra e una radiotrasmittente.
All’alba venne avanti da sud un carro armato tedesco con una bandiera bianca. Ci chiedemmo che cosa sarebbe successo. Due uomini uscirono dal carro armato, un ufficiale nazista e un interprete. Con l’aiuto dell’interprete, l’ufficiale cercò di convincerci ad arrenderci all’« eroico esercito tedesco » in quanto ogni difesa era inutile e noi non saremmo riusciti a tenere la nostra posizione per molto tempo ancora. « Meglio per voi cedere l’elevatore, » dichiarò l’ufficiale tedesco. « Se rifiutate vi tratteremo senza pietà. Nel giro di un’ora vi annienteremo a cannonate. »
« Che sfacciataggine, » pensammo e rispondemmo brevemente al tenente nazista: «Dite ai vostri nazisti di andare aH’inferno!... Potete tornare indietro, ma ci tornerete a piedi. »
Il carro armato tedesco cercò di battere in ritirata ma un colpo sparato da uno dei nostri due fucili anticarro lo fermò.
Di lì a poco fanteria e carri armati nemici in numero circa dieci volte superiore al nostro sferrarono un attacco da sud e da ovest. Dopo che il primo attacco fu respinto ne cominciò un secondo, quindi un terzo mentre un aeroplano da ricognizione volteggiava su di noi. L’aereo corresse il tiro dei nemici e riferì sulle nostre posizioni. Il 18 settembre respingemmo in tutto dieci attacchi.
Economizzammo le munizioni in quanto era molto difficile poterne avere delle altre.
Nell’elevatore il grano aveva preso fuoco, l’acqua delle mitragliatrici evaporava, i feriti erano assetati, ma non potevamo dar loro da bere. Ecco come ci difendemmo per ventiquattr’ore al giorno durante tre giorni. Caldo, fumo, sete... le labbra si spaccavano. Durante il giorno molti di noi salivano in cima all’elevatore e di là sparavano sui tedeschi; di notte scendevamo giù e formavamo un anello difensivo intorno all’edifìcio. La nostra radio era stata messa fuori uso fin dal primo giorno. Non avevamo alcun contatto con i nostri reparti.
Arrivò il 20 settembre. A mezzogiorno dodici carri armati nemici vennero avanti da sud e da ovest. Avevamo già finito le munizioni dei fucili anticarro e non avevamo più bombe a mano. I carri si avvicinarono all’elevatore da due parti e cominciarono a sparare a zero contro di noi. Ma nessuno cedette. Le mitragliatrici e i mitra continuarono a sparare sui soldati nemici impedendo loro di entrare nell’elevatore. Poi una Maxim, insieme con un mitragliere, venne colpita da una granata, mentre la postazione della seconda Maxim veniva colpita da uno shrapnel che piegò in due la canna dell’arma. Rimanemmo solo con una mitragliatrice leggera.
Le esplosioni scuotevano le mura di cemento armato; il grano era in fiamme. Non potevamo vederci a causa del fumo e della polvere, ma ci incoraggiavamo con delle grida.
Dietro i carri armati apparvero dei soldati tedeschi. Erano circa 150-200. Attaccavano con prudenza gettando davanti a loro delle bombe a mano.. Riuscimmo ad afferrare alcune bombe e a ributtargliele indietro.
Sul lato occidentale dell’elevatore i tedeschi riuscirono a entrare nell’edificio, ma noi immediatamente dirigemmo il nostro fuoco dalla parte da cui essi erano entrati.
Il combattimento infuriò nell’interno dell’edificio. Udivamo i passi e il respiro dei soldati nemici ma non potevamo vederli a causa del fumo. Sparavamo dove sentivamo del rumore.
La notte, durante una breve pausa, contammo le munizioni. Non ce n’erano rimaste molte: un caricatore e mezzo per la mitragliatrice, da venti a venticinque caricatori per ogni mitra e da otto a dieci caricatori per ogni fucile.
Difenderci con quelle poche munizioni era impossibile. Eravamo circondati. Decidemmo di fare una sortita verso sud, nella zona di Beketovka, in quanto i carri armati nemici si trovavano a nord e ad est dell’elevatore.
Durante la notte del 20, coperti dal fuoco dei nostri mitra, facemmo la sortita. Dapprincipio tutto andò bene; i tedeschi non ci aspettavano da quella parte. Passammo attraverso la gola e superammo la linea ferroviaria, quindi ci imbattemmo in una batteria di mortai nemici che era stata appena messa in postazione approfittando dell’oscurità. Rovesciammo i tre mortai e un camion carico di bombe. I tedeschi fuggirono lasciando sul terreno sette morti e abbandonando non solo le armi ma anche il pane e l’acqua. Noi stavamo morendo di sete. « Qualcosa da bere! Qualcosa da bere! » fu tutto quello che riuscimmo a pensare. Bevemmo a più non posso nell’oscurità. Quindi mangiammo il pane che avevamo preso ai tedeschi e andammo avanti. Ma ahimè, ciò che accadde ai miei compagni non lo so, perchè l’unica cosa che ricordo fu che riaprii gli occhi il 25 o il 26 settembre. Mi trovavo in una cantina scura e umida e mi pareva di essere tutto coperto da una sostanza oleosa. Non avevo abiti addosso e mi mancava la scarpa destra. Le mani e le gambe non mi obbedivano e la testa mi ronzava.
Si aprì una porta e alla luce del sole vidi un soldato con un’uniforme nera. Sulla manica sinistra c’era un teschio. Ero caduto nelle mani del nemico.
L’offensiva tedesca, che era cominciata così brillantemente, che aveva in poche settimane riaffermato la capacità della Wehrmacht di far tremare tutto il mondo, che aveva portato i confini del Reich nel punto più lontano, era ora innegabilmente bloccata. Per circa due mesi le mappe degli Stati Maggiori non vennero cambiate.
Il ministero della Propaganda affermava che era in corso la « più grande battaglia di logoramento che il mondo abbia mai visto » e pubblicava ogni giorno delle cifre che mostravano fino a che punto i sovietici si stessero dissanguando. Ma che i tedeschi ci credessero o no, i fatti erano molto diversi. Non l’Armata Rossa, ma i tedeschi erano ripetutamente costretti a puntare al « buio ». Con la stessa freddezza con cui si era rifiutato di impegnare la riserva siberiana fino a che la battaglia di Mosca non fosse stata decisa, Zukov limitava al minimo i rinforzi alla LXII armata. Durante due diffìcili mesi, dal i° settembre al i° novembre, solo cinque divisioni di fanteria vennero inviate al di là del Volga: appena sufficienti per coprire le « perdite ». Eppure in quel periodo venivano costituite ventisette nuove divisioni di fanteria e diciannove brigate corazzate con nuovo materiale e con quadri di ufficiali e sottufficiali esperti. Erano tutte concentrate nella zona fra Povorino e Saratov, dove completavano l’addestramento e da dove alcune venivano mandate a turno nel settore centrale per fare brevi esperienze in linea. Così, mentre i tedeschi logoravano lentamente, a causa della stanchezza e delle perdite, tutte le loro divisioni, l’Armata Rossa si costituiva una formidabile riserva di uomini e mezzi corazzati.
Alla delusione di rimanere bloccati a un passo (così sembrava) dalla vittoria completa, si unì presto un cattivo presentimento che andò aumentando mentre le settimane passavano, una dopo l’altra, e le truppe rimanevano sempre sulle stesse posizioni.
Si avvertiva ormai chiaramente che i giorni stavano di nuovo accorciandosi. Di mattina l’aria era molto fresca. Avremmo dunque continuato a combattere durante un altro di quegli spaventosi inverni? Pensavo che ciò fosse al di sopra delle nostre forze. Molti di noi sentivano che sarebbe valsa la pena di pagare qualunque prezzo pur di finire prima dell’inverno.
Mentre il morale degli uomini subiva gli alti e bassi del parossismo e della depressione, recriminazioni e contrasti personali vennero a turbare la guida del gruppo di armate al più alto livello.
I primi a cominciare furono due generali carristi, Wietersheim e Schwedler. In sostanza essi si lamentavano che le divisioni corazzate venissero logorate in operazioni alle quali erano completamente inadatte e che con qualche altra settimana di combattimenti per le strade non sarebbero state più in grado di adempiere il loro compito precipuo, quello cioè di impegnare le forze corazzate nemiche in battaglie di movimento. Tuttavia, poiché il protocollo militare non consente ai comandanti delle unità, per quanto illustri, di sollevare obiezioni sul piano strategico, essi decisero di protestare su una questione tattica più ristretta.
II generale von Wietersheim comandava il XIV corpo d’armata Panzer che era stata la prima unità della VI armata a raggiungere il Volga a Rynok in agosto. Egli non può essere certo accusato di essere un pavido in quanto aveva guidato il suo corpo d’armata nel 1940 attraverso la Francia settentrionale immediatamente alle calcagna di Guderian ed era stato uno dei pochi ufficiali dell’Esercito tedesco che avevano proposto l’immediato passaggio della Mosa. Wietersheim disse a Paulus che l’azione di logoramento effettuata dall’artiglieria russa, che sparava da entrambi i lati del corridoio di Rynok, stava avendo tali effetti sui suoi Panzer che essi avrebbero dovuto essere ritirati e il corridoio avrebbe dovuto essere mantenuto aperto dalla fanteria. Wietersheim venne destituito, rispedito in Germania e terminò la sua carriera militare nel 1945 come soldato semplice della Volkssturm in Pomerania.
Il generale von Schwedler era il comandante del IV corpo d’armata Panzer e aveva comandato l’ala meridionale durante la controffensiva contro la puntata di Timoscenko su Kharkov nel maggio. Il suo caso è interessante perchè egli fu il primo generale ad ammonire contro il pericolo di concentrare tutte le forze corazzate all’estremità di uno « Schwerpunkt morto » e contro la vulnerabilità di fronte ad un attacco russo alle ali.3 Ma nell’autunno del 1942 l’idea che i russi potessero attaccare veniva considerata come « disfattista », ed anche Schwedler venne destituito.
La terza testa a cadere fu quella del colonnello generale List, comandante in capo del Gruppo di Armate A. Dopo la prima rapida avanzata attraverso il Kuban, che aveva portato, alla fine di agosto, la I armata Panzer a Mozdok, il fronte dell’avanzata tedesca si era stabilizzato lungo i margini della catena del Caucaso e il corso del fiume Terek. Diversi fattori avevano contribuito a ciò, soprattutto il ritiro dei bombardieri di Richthofen, inviati a Stalingrado, e una certa ripresa dei difensori. Kleist aveva notato:
Nelle prime fasi... incontrai una scarsa resistenza organizzata. Non appena le forze russe venivano superate, la maggior parte dei soldati sembrava preoccuparsi più di tornare a casa che di continuare a combattere. Era ben diverso da ciò che era accaduto nel 1941. Ma quando avanzammo nel Caucaso ci trovammo di fronte a forze costituite da truppe locali che combattevano più tenacemente perchè lottavano per difendere le loro case. La loro ostinata resistenza fu tanto più efficace in quanto il terreno era molto difficile...
Di conseguenza, il primo piano per l’occupazione dei campi petroliferi venne mutato e I’Okw ordinò a List di aprirsi la strada attraverso il basso Caucaso all’estremità occidentale e occupare Tuapse. Vennero inviati invece alla XVII armata dei rinforzi, comprese tre divisioni da montagna che sarebbero state molto utili a Kleist. Se questa manovra avesse avuto successo, i tedeschi avrebbero fatto irruzione attraverso la parte più bassa del Caucaso e, occupando Batum, avrebbero costretto la flotta russa del Mar Nero a internarsi, assicurandosi al tempo stesso la Crimea e la compiacente neutralità della Turchia. In effetti le difficoltà vennero l’una dopo l’altra, e nonostante i rinforzi, List fece scarsi progressi. Nel settembre Jodl venne inviato, quale rappresentante dell’OKW, al Quartier Generale di List per far presente « l’impazienza del Fiihrer » e per cercare di smuovere le cose.
Ma quando Jodl ritornò portava cattive notizie.
List aveva agito in conformità con gli ordini del Fiihrer, ma la resistenza russa era forte dovunque e si appoggiava a un terreno molto difficile.
Warlimont sostiene che Jodl rispose ai rimproveri di Hitler (e se lo fece fu certamente la prima e l’ultima volta) mettendo in evidenza
il fatto che Hitler con i suoi ordini aveva indotto List ad avanzare su un fronte troppo esteso.
Il risultato fu « una scenata » e Jodl cadde in disgrazia.
Altra conseguenza tu che Hitler cambiò completamente le sue abitudini quotidiane. Da allora non prese più i due pasti principali in compagnia del suo entourage. Da allora non lasciò quasi più la sua baracca durante il giorno nemmeno per i quotidiani rapporti sulla situazione militare, che da allora in poi ebbero luogo nel suo alloggiamento in presenza di un ristretto gruppo di persone. Egli rifiutò ostinatamente di stringere le mani ai generali dell’OKW e diede ordini perchè Jodl fosse sostituito da un altro ufficiale.
La sostituzione di Jodl non ebbe mai luogo e il capo di Stato Maggiore dell’OKW tornò presto nelle grazie di Hitler, avendo imparato, come confidò a Warlimont, che
un dittatore, per una questione psicologica, non tollera che gli si ricordino i propri errori in quanto ha bisogno di mantenere la fiducia in se stesso, prima fonte della sua forza dittatoriale.
Nondimeno, la probabilità della designazione venne debitamente comunicata all’« altro ufficiale » interessato, con i risultati che si vedranno.
Tuttavia, prima di seguire ulteriormente questa storia di ambizioni e di intrighi, bisogna ricordare un altro licenziamento e gli effetti che esso ebbe sul funzionamento del Quartier Generale del Fiihrer. I rapporti fra Hitler e Haider erano andati sempre peggiorando dopo la rimozione del cedevole ObdH, che aveva funzionato da ammortizzatore fra la violenza di Hitler e la spigolosità del capo di Stato Maggiore. Manstein, che li aveva visti insieme in agosto, allorché si trovò a passare dal Quartier Generale nell’andare ad assumere il comando a Leningrado, rimase « sgomentato » nel vedere quanto cattivi fossero i loro rapporti. Hitler scherniva Haider a causa della sua mancanza di esperienza di combattimento, in contrasto con le esperienze da lui fatte al fronte durante la grande guerra. Haider rispondeva a mezza bocca sottolineando le differenza fra il parere di un competente e di un « incompetente ».
La faccenda giunse a una crisi a proposito di una questione di secondaria importanza relativa al fronte centrale. Molti comandanti tedeschi e soprattutto Kluge (che era direttamente interessato) ritenevano che la controffensiva che i russi avrebbero certamente sferrato nell’inverno sarebbe stata diretta contro il Gruppo di Armate del Centro. Questa convinzione era in parte da attribuire al sistema, seguito dai russi, di dare alle loro nuove divisioni il battesimo del fuoco nel tranquillo settore centrale prima di rispedirle nella riserva strategica. Le nuove divisioni venivano identificate e poi sembrava che sparissero. Kluge e Haider si formarono l’erronea convinzione che esse venissero ammassate nelle retrovie del fronte, sul quale erano state identificate, e non, come invece avveniva in realtà, che venissero mandate a sud. Comunque sia, fra Hitler e Haider scoppiò un litigio piuttosto bambinesco sulla data in cui una di queste unità era stata identificata; la disputa tirò in ballo problemi più importanti (e soprattutto la necessità, secondo Haider, di rinforzare Kluge) e, indirettamente, la questione delle condizioni di eccessivo logoramento in cui si trovava la Wehrmacht.4 Il 24 settembre Haider venne licenziato e il colonnello generale Kurt Zeitzler venne richiamato dal fronte occidentale per prendere il suo posto.
La circostanza del licenziamento di Haider è particolarmente interessante per gli storici della seconda guerra mondiale a causa di un mutamento intervenuto in quel tempo nella prassi delle riunioni quotidiane del Fiihrer. Queste riunioni erano diventate la sede in cui si dirigeva la guerra e si emanavano direttive. Il vecchio apparato del-I’okh era andato decadendo fin dalla rimozione di Brauchitsch e la vera colpa di Haider, agli occhi di Hitler, era quella di aver cercato di riservare all’oKH (e quindi a se stesso) alcune delle vecchie prerogative del Generalstab, e di aver accettato senza entusiasmo la « nomina » di Hitler a comandante in capo dell’Esercito, facendo capire di ritenerla nulla più che una misura puramente temporanea. Con l’avvento di Zeitzler, il quale non ricordava il tempo in cui I’okh dirigeva la campagna orientale e Hitler non era altro che una voce petulante all’altro capo di una linea telefonica in cattive condizioni, l’accentramento della direzione tattica e strategica sarebbe stato completo. L’ultimo passo nella trasformazione delle riunioni quotidiane a sede prima del processo esecutivo fu la partecipazione alle sedute di stenografi che registravano fedelmente ogni parola detta da ciascuno dei presenti. I verbali rimasti sono di enorme importanza, in quanto mostrano come la guerra venisse condotta dai tedeschi, e ogni volta che essi toccano la campagna orientale verranno ampiamente citati in quest’opera.5
Uno di coloro che beneficiarono del rimpasto del Quartier Generale di Hitler fu il leale e volonteroso nazista generale Schmundt (che il lettore ricorderà mentre cercava di aiutare Guderian con i suoi « problemi » durante l’estate precedente 6 e che verrà di nuovo incontrato più tardi in una situazione meno felice). Schmundt venne promosso dalla carica piuttosto vaga di primo aiutante di Hitler a quella di capo dell’ufficio personale dell’Esercito, dove godè di notevoli poteri in fatto di trasferimenti e assegnazioni. Paulus « pensò che avrebbe dovuto mandare a Schmundt le sue congratulazioni ».
Non molto dopo Schmundt si recò al Quartier Generale di Paulus e il comandante della VI armata subito ne approfittò per lagnarsi delle condizioni delle truppe, della scarsezza di materiali, della forza della resistenza russa, dei pericoli che si correvano se la VI armata si fosse logorata troppo, e così via. Forse accennò al testo della Direttiva n. 41 secondo cui egli doveva limitarsi a tenere il Volga sotto il tiro dell’artiglieria, perchè senza dubbio questo l’aveva fatto.
Schmundt, tuttavia, aveva in serbo l’unica risposta alla quale un comandante non sa mai resistere. Dopo alcune osservazioni circa il desiderio del Fuhrer di vedere « giungere a felice conclusione » le operazioni a Stalingrado, gli diede la entusiasmante notizia. L’« altro ufficiale » designato per il posto di capo di Stato Maggiore al-I’okw era lo stesso Paulus! È vero che la caduta in disgrazia del generale Jodl in quel momento aveva subito una battuta d’arresto, ma Paulus era stato « senz’altro designato » per un incarico più importante e il generale von Seydlitz avrebbe preso il suo posto a capo della VI armata.
Paulus sarebbe stato un buon ufficiale di Stato Maggiore; come comandante di una grande unità era lento e privo di fantasia fino al punto da rasentare l’ottusità. È altrettanto certo, come dimostra la sua carriera prima e dopo la cattura, che egli sapeva individuare dove fossero le fonti del potere o, per dirla più chiaramente, che sapeva quello che faceva al caso suo. Dopo aver appreso da Schmundt qual era la posta in gioco, si impegnò con particolare entusiasmo nei preparativi di una quarta offensiva.
Questa volta Paulus aveva deciso di colpire direttamente il punto più forte del nemico: i tre giganteschi complessi delle fabbriche Trattore, Barricata e Ottobre Rosso, che sorgevano nella parte nord della città, uno dietro l’altro, a poche decine di metri dalle rive del Volga. Questa fu la più aspra e la più lunga delle cinque battaglie combattute nella città distrutta. Cominciò il 4 ottobre e infuriò per circa tre settimane.
Paulus era stato rinforzato da diversi reparti di specialisti fra cui i battaglioni di polizia e di genieri esperti nei combattimenti per le strade e nel lavoro di demolizione. Ma i russi, sebbene si trovassero ora in condizione di grave inferiorità numerica, rimanevano maestri nella tecnica del combattimento da casa a casa. Essi avevano perfezionato l’impiego dei « gruppi d’assalto », piccoli reparti dotati di armi diverse — mitragliatrici leggere e pesanti, mitra e pezzi anticarro — che si appoggiavano reciprocamente nei fulminei contrattacchi ; inoltre avevano creato delle « zone mortali » nelle case e nelle piazze densamente minate, di cui i difensori conoscevano tutte le vie di accesso sulle quali veniva canalizzata l’avanzata tedesca. « L’esperienza ci insegnò, » scrisse Chuikov :
... ad avvicinarci alle posizioni del nemico; a muoverci carponi sfruttando le buche e le macerie; a scavare le trincee di notte e a mimetizzarle di giorno; a prepararci all’attacco senza fare alcun rumore; a portare il mitra sulle spalle; a portare da dieci a dodici bombe a mano. La tempestività e la sorpresa saranno allora nostre alleate...
... In una casa si entra in due : tu e una bomba a mano; entrambi senza troppi impacci: tu senza lo zaino, la bomba a mano senza la sicura; prima va dentro la bomba a mano, poi ci vai tu; entra in tutti i locali della casa, e sempre prima la bomba a mano e poi tu...
...C’è un’altra regola precisa ora: fatti spazio! Ad ogni passo è in agguato il pericolo. Non importa: una granata in ogni angolo della stanza, poi avanti! Una raffica di mitra su ciò che è rimasto; ancora un po’ più avanti: un’altra bomba a mano e poi ancora avanti! Un’altra stanza: una bomba a mano! Una voltata : un’altra bomba a mano! Una raffica con il mitra! E poi avanti!
All’interno dell’edifìcio che tu attacchi il nemico può passare al contrattacco. Non avere paura! Tu hai già preso l’iniziativa, è nelle tue mani. Agisci con decisione servendoti della tua bomba a mano, del tuo mitra, del tuo pugnale e della tua baionetta! Il combattimento dentro un edifìcio è sempre confuso. Perciò sii sempre pronto ad ogni evenienza. Tieni gli occhi aperti!...
Lentamente e a carissimo prezzo i tedeschi avanzavano a palmo a palmo nei grandi edifici, attraverso gli ampi locali della fabbrica; in mezzo ai macchinari fermi, nelle fonderie, nelle sale di montaggio, negli uffici. « Mio Dio, perchè ci hai abbandonato? » scriveva un tenente della 24* divisione Panzer.
Durante quindici giorni abbiamo combattuto per il possesso di una sola casa con mortai, bombe a mano, mitragliatrici e baionette. Già al terzo giorno cinquantaquattro cadaveri tedeschi si ammucchiavano nelle cantine, sui pianerottoli e sulle scale. La linea del fronte passa per un corridoio fra le stanze bruciate; è costituita dal sottile soffitto fra due piani. I rinforzi vengono dalle case vicine attraverso le scale di sicurezza e i camini. Si combatte incessantemente da mezzogiorno fino a notte. Da un piano all’altro, con le facce sporche di sudore, ci prendiamo di mira con le bombe a mano, nel frastuono delle esplosioni, fra nuvole di polvere e di fumo, mucchi di macerie, fiumi di sangue, pezzi di mobilia e di corpi umani. Chiedete a qualsiasi soldato che cosa significhi mezz’ora di lotta a corpo a corpo in simili condizioni. E poi pensate a Stalingrado; ottanta giorni e ottanta notti di lotte a corpo a corpo. Le strade non si misurano più a metri ma a cadaveri...
Stalingrado non è più una città. Di giorno è una enorme nuvola di fumo accecante; è una grande fornace illuminata dai riflessi delle fiamme. E quando arriva la notte, una di quelle tremende, spaventose, sanguinose notti, i cani si tuffano nel Volga e nuotano disperatamente per raggiungere l’altra sponda. Le notti di Stalingrado li terrorizzano. Gli animali fuggono da questo inferno; le pietre più dure finiscono per cedere; solo gli uomini resistono.
NOTE:
1 II punto centrale del perimetro francese a Verdun. Per una descrizione dell’assedio (forse la più bella descrizione di un combattimento ravvicinato nella grande guerra) v. Alistair Horne, The Prie e of Glory.
2 A causa del fatto che i russi riservavano una morte particolare ai Flammen-werfer presi prigionieri, questi venivano definiti nei libri-paga come « Genieri di 1a classe», sebbene percepissero paghe anche più alte.
3 Praticamente ogni comandante tedesco del teatro di operazioni sud si attribuisce ora il merito di questa previsione. In realtà, sembra che essa debba essere attribuita a Schwedler o a Blumentritt. Blumentritt, mandato per un giro d’ispezione sul fronte del Don fra Voronezh e Kletskaia, presentò un rapporto per chiarire che «... non sarebbe prudente mantenere un fianco difensivo così lungo durante l’inverno ». Goerlitz colloca l’epoca di questa ispezione all’inizio di agosto, ma lo stesso Blumentritt, interrogato, disse che avvenne in settembre.
4 Molti contestano che l’allontanamento di Haider fosse provocato dal suo rifiuto di autorizzare ulteriori operazioni offensive a Stalingrado fino a che il fianco del Don non fosse stato rafforzato (Leyderrey, Goerlitz, Blumentritt, lo stesso Halder, ecc.). Ma la serie di ragionamenti che dovrebbero sostenere questa affermazione è poco convincente. V. l’affermazione esplicita di Warlimont:
« Fu da questo argomento [l’attività russa contro il Gruppo di Armate del Centro a Rzhev] che ebbe origine lo scontro finale fra Hitler e Haider, che portò alla destituzione di quest’ultimo. » (Liddell Hart, Op. cit., pag. 220).
5 Sul carattere e le origini di questo materiale importantissimo si parla diffusamente nella Nota sulle Fonti.
6 V. pag. 106.
Senza dubbio la tremenda battaglia che doveva essere combattuta a Stalingrado trova il suo parallelo più calzante negli orrori della « macchina tritacarne » di Falkenhayn a Verdun. Ma ci sono delle differenze importanti. A Verdun gli avversari quasi mai si trovarono a faccia a faccia. Venivano fatti a pezzi dall’alto esplosivo o falciati dal fuoco delle mitragliatrici. A Stalingrado ogni battaglia si risolveva in un combattimento fra singoli individui. Da un lato all’altro della strada i soldati delle due parti si insultavano e si maledicevano; spesso mentre ricaricavano le armi sentivano il respiro affannoso del nemico nella stanza accanto ; i duelli a corpo a corpo si concludevano fra nubi di fumo e di polvere, con coltelli e piccozze, a colpi di mazze di legno trovate fra le macerie o di cavi d’acciaio.
Per i tedeschi, quando si trovavano ancora nei sobborghi, era possibile sfruttare il vantaggio che derivava dalla loro superiorità in fatto di carri armati e di aviazione. Le case erano di legno ed erano state tutte distrutte durante la grande incursione aerea del 23 agosto. I combattimenti si svolgevano in una gigantesca foresta pietrificata di camini anneriti, dove i difensori non trovavano altro riparo se non i resti dei bungalow di legno compensato e delle baracche operaie che circondavano la città. Ma a mano a mano che i tedeschi si addentravano sempre più nella zona delle fognature, dei mattoni e del cemento, il loro vecchio piano di operazioni perdeva valore. Il generale Doerr ha detto che
il tempo di condurre operazioni su larga scala era passato per sempre; dagli ampi spazi della steppa la guerra si era trasferita nelle strettoie delle colline del Volga, con i loro boschetti e le loro gole, nella zona industriale di Stalingrado, che si stendeva sul terreno ineguale e tormentato, coperto di ferro, di cemento e di edifici di pietra. Il chilometro, come misura delle distanze, era sostituito dal metro. La mappa del Quartier Generale era la mappa della città.
Per ogni casa, per ogni officina, per ogni serbatoio d’acqua, per ogni banchina ferroviaria, per ogni muro, per ogni cantina, per ogni ammasso di macerie, veniva ingaggiata un’accanita battaglia che non trovava uguali nemmeno nella prima guerra mondiale con il suo enorme dispendio di munizioni. La distanza fra l’Esercito nemico e il nostro era minima. Nonostante l’attività concentrata dell’Aviazione e dell’artiglieria fu impossibile uscire dalla zona del combattimento ravvicinato. I russi sopravanzavano i tedeschi nello sfruttamento del terreno e nella mimetizzazione ed erano più esperti nella guerra di barricate per la conquista di singoli edifici...
Se la battaglia ebbe uno schema tattico, questo s’incentrò sul possesso dei guadi del Volga che costituivano la via di rifornimento della guarnigione. Infatti, se i russi tenevano la loro artiglieria di grosso e di medio calibro sulla sponda orientale, consumavano enormi quantità di munizioni per armi di piccolo calibro e bombe da mortaio e dipendevano dal traffico attraverso il Volga per molti altri servizi essenziali allo spirito combattivo della guarnigione, servizi che andavano dai rifornimenti di vodka all’evacuazione dei feriti. La leggera curva descritta dal fiume e le numerose isolette che lo costellavano fra Rynok e Krasnaya Sloboda resero molto difficile prendere d’infilata tutti i guadi anche dopo che i cannoni furono installati sulla sponda destra, e quasi impossibile farlo di notte quando si svolgeva il maggior volume di traffico. I tedeschi tardarono a rendersi conto di ciò e invece di consacrare tutte le loro energie ad attaccare i punti estremi delle posizioni russe avanzando da monte e da valle lungo la sponda del fiume — una tattica che, se attuata con successo, avrebbe finito per lasciare la guarnigione tagliata fuori al centro su un’isola di macerie — dispersero i loro sforzi in punti diversi della città, adottando il metodo piuttosto costoso di liquidare un isolato dopo l’altro. Ciascuna delle tre grandi « offensive » sferrate durante l’assedio mirava a penetrare nella sottile striscia di terreno tenuta dai russi e a raggiungere il Volga nel maggior numero possibile di punti. Il risultato fu che, anche dove raggiunsero il loro scopo, gli attaccanti si trovarono impigliati in una rete di capisaldi nemici, mentre i corridoi di accesso erano troppo stretti per fare delle truppe che si trovavano alle estremità qualcosa di diverso da un semplice peso morto.
Se la Luftwaffe fosse stata impiegata con continuità in un ruolo di « interdizione » (nel senso, cioè, in cui il termine finì per essere inteso nell’occidente), i guadi sul Volga avrebbero potuto essere interrotti. Senza dubbio Richthofen, se avesse avuto istruzioni appropriate, avrebbe potuto fare qualcosa di più circa le batterie russe da 76 mm sulla sponda orientale, il cui fuoco impediva alla VI armata di operare troppo vicino al fiume. Rimane comunque il fatto che, mentre i russi dimostrarono grande abilità e versatilità nell’adattare la loro tattica agli sviluppi della battaglia, Paulus ne sbagliò l’impostazione fin dall’inizio. I tedeschi rimasero confusi da una situazione che non rientrava nella loro esperienza militare e reagirono in un modo caratteristico, impiegando cioè in dosi sempre più massicce la forza bruta.
Questa confusione andava dagli alti ufficiali al soldato semplice. Hoffmann (il diarista di cui sono già state citate le parole di esultanza per l’incursione terroristica del 23 agosto) riflette questo atteggiamento negli epiteti che affibbia ai difensori e che passano progressivamente dall’incredulità e dal disprezzo alla paura e infine all’autocommiserazione.
i° settembre: « Cosa vogliono fare i russi? Combattere fino alla sponda del Volga? È una pazzia. »
8 settembre : «... folle testardaggine. »
11 settembre : «... fanatici. »
13 settembre: « ... bestie feroci. »
16 settembre: «Barbarie... [essi non sono] uomini ma diavoli.»
26 settembre : «... barbari, usano metodi da gangster. »
Per un mese non vi sono altri apprezzamenti sul nemico, ma durante questo periodo le annotazioni sono piene di tristezza per il destino dello scrivente e dei suoi compagni d’arme.
27 ottobre: « ... I russi non sono uomini, ma sono fatti di ferro; non sono mai stanchi e non hanno paura del fuoco. »
28 ottobre: « Ogni soldato si considera un condannato. »
Quando Paulus tornò al suo Quartier Generale dopo il colloquio con Hitler del 12 settembre, l’ora X della sua terza offensiva era vicina. Questa volta la VI armata impiegava undici divisioni di cui tre corazzate. I russi avevano solo tre divisioni di fanteria, alcuni reparti di altre quattro divisioni e due brigate corazzate. Questa diminuzione delle forze dei difensori era il risultato del successo conseguito da Hoth nella sua penetrazione fino al Volga a Kuporosnoye, un sobborgo di Stalingrado, e quindi della separazione della LXII dalla LXIV armata. Cinque giorni prima, il 4 settembre, i carri armati di Hoth avevano per la prima volta tagliato in due la LXIV armata raggiungendo il Volga a Krasnoarmeisk, e il grosso delle forze russe, che si era logorato durante sei settimane di continui combattimenti contro il miglior Panzergruppe dell’intero Esercito tedesco, si trovò inchiodato su una striscia di circa venti chilometri lungo la massicciata della ferrovia Stalingrado-Rostov. Il giorno dopo la presa di Kuporosnoye da parte della 14** divisione Panzer, Chuikov venne inviato a comandare l’isolata LXII armata. Quella notte egli attraversò il fiume in battello partendo da Beketovka e, dopo un angoscioso viaggio in jeep lungo la sponda sinistra del fiume per recarsi a rapporto da Kruscev e Yeremenko al Quartier Generale del « fronte » a Yamy, prese all’alba il traghetto per passare da Krasnaya Sloboda nella città in fiamme.
Da ventiquattro ore Stalingrado si trovava sotto il bombardamento continuo dell’artiglieria della VI armata che spianava la strada all’assalto concentrico di Paulus. Mentre il traghetto si avvicinava all’approdo, schegge di granata e pallottole morte di shrapnel schizzavano nell’acqua scura « come trote », e la temperatura aumentava di parecchi gradi a causa delle fiamme. Chuikov rifletté che :
Chiunque non avesse avuto esperienza di guerra avrebbe potuto pensare che nella città in fiamme non ci fosse più vita, che tutto fosse stato distrutto e bruciato... Ma io sapevo che dall’altra parte del fiume si combatteva, che era in corso una lotta titanica.
Paulus aveva concentrato due « forze d’urto » che avevano il compito di convergere sulla parte meridionale della città e di riunirsi nel cosiddetto « approdo centrale » di fronte a Krasnaya Sloboda. Tre divisioni di fanteria, la 71% la y6a e la 295% dovevano muoversi dalla stazione ferroviaria di Gumrak, prendere l’ospedale principale e giungere a Matveyev Kurgan. Un gruppo ancora più forte, formato dalla 94* divisione di fanteria e dalla 29* motorizzata, doveva attaccare a nord-est dal distretto minerario della Yelshanka, appoggiato dalla i4a e dalla 24a divisione Panzer.
A Chuikov erano rimasti solo quaranta carri efficienti, ma la maggior parte di questi non erano più mobili perchè erano stati interrati in modo da funzionare come fortini. Egli aveva ancora una piccola riserva di carri armati costituita da diciannove KV, che non erano stati ancora impegnati, ma non aveva alcuna riserva di fanteria perchè ogni uomo in grado di portare un fucile era stato gettato nella battaglia. Il predecessore di Chuikov, il generale Lopatin, si era (a suo dire) convinto della « impossibilità e inutilità di difendere la città » e questo senso di avvilimento
si era indubbiamente comunicato ai suoi subordinati... col pretesto di malattie tre dei miei comandanti [artiglieria, carri armati e genio] erano ritornati sulla sponda opposta del Volga.
Il problema difensivo era quadruplice : innanzitutto era essenziale mantenere i fianchi saldamente ancorati alla sponda del fiume. Ogni metro delle rive scoscese del Volga era prezioso per i russi che vi avevano scavato alloggiamenti, ospedali da campo, depositi di munizioni e di carburanti e perfino rimesse per i camion delle « Katiusce » che in meno di cinque minuti uscivano dalle grotte, sparavano una salva e ritornavano al coperto. L’ala settentrionale al di sotto di Rynok era la più forte delle due, perchè qui si trovavano gli edifici di cemento, praticamente indistruttibili, delle fabbriche Trattore, Barricata e Ottobre Rosso. All’estremità meridionale, invece, gli edifici erano meno robusti e il terreno era relativamente aperto, movimentato solo da cumuli di macerie e da qualche tratto di brughiera devastata dominata dalle torri degli elevatori di grano. Per di qui, inoltre, passava la strada più breve che conduceva all’approdo centrale lungo il corso del ruscello Tsaritsa e al centro nevralgico del sistema difensivo di Stalingrado, il posto di comando di Chuikov, situato in una trincea, conosciuta come il « bunker Tsaritsyn », scavata al limite del letto del fiume presso il ponte di via Pushkin.
Il pericolo di concentrare le proprie forze alle estremità era che il lunghissimo fronte occidentale di Chuikov (oltre sedici chilometri da Rynok a Kuporosnoye a volo d’uccello e il doppio seguendo le « linee ») sarebbe diventato vulnerabile a un assalto concentrato su un fronte ristretto e in particolare Matveyev-Kurgan, una collinetta erbosa che dominava il centro della città, avrebbe potuto essere conquistata dal nemico prima che giungessero i rinforzi.
Chuikov aveva chiesto urgenti rinforzi di fanteria a Yeremenko il 13 settembre, quando Paulus sferrò il suo attacco, e durante la notte apprese che la 13a divisione fanteria Guardie, un’unità molto forte agli ordini del generale Rodimtsev (il quale aveva fatto le sue prime esperienze di combattimenti per le strade nella città universitaria di Madrid nel 1936), sarebbe stata traghettata a partire dall’imbrunire del giorno seguente. Tuttavia, durante il pomeriggio del 14 settembre l’attacco centrale di Paulus riuscì a sfondare il fronte russo dietro l’ospedale e la 76* divisione fanteria si riversò nelle zone retrostanti della città tenute solo da alcuni franchi tiratori.
Autocarri carichi di soldati e carri armati penetrarono nella città. I tedeschi ovviamente pensavano che il destino della città fosse segnato e si misero a correre verso il centro e verso il Volga afferrando dei souvenir da riportare in patria... vedemmo tedeschi ubriachi saltare giù dagli autocarri, mettersi a suonare delle armoniche a bocca, gridare come pazzi e danzare in mezzo alle strade.
Per bloccare questa irruzione Chuikov si servì dell’ultima riserva di carri armati, il che significava trasferirli alla luce del giorno dal settore meridionale che era a sua volta sottoposto a una forte pressione. Gli ufficiali del suo stesso Stato Maggiore e la compagnia d guardia al bunker dovettero impegnarsi nei combattimenti che infuriarono per tutta la notte. Alcuni soldati tedeschi riuscirono ad infiltrarsi fino a centocinquanta metri dal bunker Tsaritsyn e piazzarono le mitragliatrici pesanti con le quali fecero fuoco sull’approdo centrale. Chuikov si trovò di nuovo davanti alla prospettiva di vedersi spezzare in due il fronte; per contro, spostare altre truppe dal settore meridionale del perimetro avrebbe potuto portare al crollo dell’intera posizione da quella parte.
A questo punto la tattica tedesca, sebbene dispendiosa ed elementare, si rivelava estremamente logorante per difese così poco profonde come erano quelle della LXII armata nei primi giorni in cui Chuikov assunse il comando. I tedeschi impiegavano i carri armati in gruppi di tre o quattro alla volta in appoggio a ciascuna compagnia di fanteria. I russi non sparavano mai ai carri armati, ma li lasciavano passare attraverso il campo di tiro dei cannoni anticarro e dei T 34 interrati che si trovavano più indietro; perciò i tedeschi dovevano sempre mandare avanti la fanteria per costringere il nemico a sparare. Una volta che la posizione era stata individuata, i carri armati, coprendosi gli uni con gli altri, facevano fuoco a zero fino a che l’edificio non cadeva in pezzi. Quando le costruzioni erano alte e resistenti la faccenda diventava lunga e complicata. I proiettili perforanti non servivano perchè passavano attraverso i muri limitandosi a fare dei buchi di sessanta centimetri. D’altra parte, non si poteva correre il rischio di mandare fuori i carri armati solo con munizioni ad alto esplosivo perchè ciò voleva dire lasciarli alla mercè di qualche T 34 che fosse comparso improvvisamente sulla scena. Inoltre, per quanto il fuoco dei carri armati riducesse come colabrodi i primi due piani, la limitata elevazione della torretta faceva sì che il resto dell’edificio rimanesse indenne nel caso che gli ultimi piani non prendessero fuoco.
Ci voleva un giorno intero per ripulire una strada da un capo all’altro, per stabilire blocchi e capisaldi all’estremità occidentale, per prepararci a tagliare un’altra fetta il giorno successivo. Ma all’alba i russi ricominciavano a sparare dalle loro vecchie posizioni! Ci mettemmo qualche tempo per scoprire il trucco; essi avevano praticato dei passaggi attraverso le soffitte e gli attici e durante la notte, come topi, tornavano indietro e mettevano in postazione le loro mitragliatrici su qualche finestra elevata o su qualche camino rotto...
Gli equipaggi dei carri armati non avevano molta voglia di condurre le loro macchine nelle strade strette dove il ponte posteriore dalla leggera corazzatura avrebbe potuto essere perforato da fucili anticarro o bombe a mano gettate dall’alto. Fu necessario accompagnare ogni attacco con squadre di lanciafiamme, in modo da incendiare gli edifici, ma si trattava di una operazione estremamente rischiosa in quanto bastava un solo proiettile per ridurre l’uomo che manovrava il lanciafiamme in una torcia vivente. Vennero accordate delle paghe speciali,2 ma fu lo stesso impossibile ottenere un numero sufficiente di volontari senza far ricorso ai battaglioni di punizione.
Tuttavia, durante i primi giorni della loro offensiva di settembre i tedeschi ebbero una superiorità di tre a uno in fatto di uomini, di oltre sei a uno in fatto di carri armati, mentre la Luftwaffe aveva il dominio completo del cielo. Fra il 14 e il 22 settembre, allorché la VI armata era ancora relativamente fresca e i russi si difendevano con i resti delle unità che erano state duramente provate nei precedenti combattimenti, si ebbe il periodo di maggior pericolo per Stalingrado.
Durante la notte del 14 settembre l’intera linea difensiva cominciò a scricchiolare a tal punto che la divisione di Rodimtsev dovette essere mandata in linea battaglione per battaglione non appena gli uomini si raggruppavano dopo essere sbarcati dai traghetti. Il risultato fu che la divisione si trovò dispersa sopra un’ampia area e che molti uomini si trovarono all’alba tagliati fuori in uno strano, desolato paesaggio di fumo e di macerie. Tuttavia anche in questo caso il tenace rifiuto dei russi di arrendersi finché avessero ancora munizioni ebbe la sua parte nel ritardare l’avanzata tedesca. Il racconto di un ufficiale appartenente alla 3* compagnia del 420 reggimento, sebbene il suo stile un po’ enfatico possa stonare alle orecchie occidentali, merita di essere citato estesamente perchè illustra le condizioni in cui si svolgevano i combattimenti per le strade e lo spirito dei difensori. A un certo punto si erano trovati tagliati fuori.
... Ripiegammo, occupando gli edifici, uno dopo l’altro e trasformandoli in capisaldi. I soldati sgusciavano fuori dalle posizioni occupate solo quando la terra sotto di loro era in fiamme e gli abiti cominciavano a fumare. Durante il giorno i tedeschi riuscirono ad occupare solo due isolati.
All’incrocio della via Krasnopiterskaya e della Komsomolskaya occupammo un edificio di tre piani sull’angolo. Era un’ottima posizione dalla quale potevamo sparare da tutte le parti e divenne la nostra ultima difesa. Ordinai che venissero barricate tutte le entrate e feci sistemare le finestre e le brecce dei muri in modo che vi si potesse sparare attraverso con le armi che ci rimanevano. Ad una finestra stretta del seminterrato sistemammo la mitragliatrice pesante con l’ultima scorta di munizioni, l’ultimo nastro di cartucce. Avevo deciso di usarlo nel momento più critico.
Due gruppi, di sei uomini ciascuno, salirono al terzo piano e nel solaio. Il loro compito era quello di abbattere i muri per preparare blocchi di pietra e pezzi di travature da gettare sui tedeschi quando si fossero avvicinati. Nel sotterraneo venne preparato un posto per i feriti gravi. La nostra guarnigione consisteva di quaranta uomini. Cominciarono giorni difficili... Il sotterraneo era pieno di feriti; c’erano ancora dodici uomini in grado di combattere. Non avevamo più acqua. Da mangiare non c’era rimasto altro che qualche chilo di grano; i tedeschi decisero di prenderci con la fame. I loro attacchi s’interruppero ma essi continuarono a sparare con le mitragliatrici pesanti per tutto il tempo... I tedeschi attaccarono di nuovo. Corsi di sopra con i miei uomini e potei scorgere le loro facce affilate, annerite e tese dalla fatica, le fasciature sulle ferite sporche e macchiate di sangue, le armi impugnate strette. Non c’era paura nei loro occhi. Lyuba Nesterenko, un’infermiera, stava morendo, il sangue scorreva a fiotti da un ferita che aveva in petto. Aveva in mano un rotolo di garza. Prima di morire volle aiutare a fasciare la ferita di un soldato, ma venne meno...
L’attacco tedesco fu respinto. Nel silenzio che piombò su di noi potevamo sentire il frastuono degli aspri combattimenti in corso per Matveyev Kurgan e nella zona industriale della città.
Come potevamo aiutare gli uomini che difendevano la città? Come potevamo distrarre da quel settore anche una parte delle forze nemiche che avevano smesso di attaccare il nostro edificio?
Decidemmo di alzare sulla casa una bandiera rossa così che i tedeschi non pensassero che ci eravamo arresi. Ma non avevamo della stoffa rossa. Comprendendo quello che volevamo fare, uno dei soldati, che era gravemente ferito, si strappò la camicia insanguinata e dopo essersela passata sul sangue che sgorgava dalla ferita, me la porse.
I tedeschi gridavano attraverso il megafono: «Russi! Arrendetevi! Tanto morirete lo stesso! »
In quel momento una bandiera rossa si levò sul nostro edificio.
« Abbaiate, cani! Abbiamo ancora molto da vivere! » gridò il mio attendente Kozhushko.
Respingemmo l’attacco successivo con lanci di pietre, con qualche raffica e gettando le nostre ultime bombe a mano. Improvvisamente da dietro un muro venne il rumore dei cingoli di un carro armato. Non avevamo bombe anticarro. Tutto quello che ci rimaneva era un fucile anticarro con tre granate. Porsi il fucile all’armiere Berdyshev e lo mandai attraverso il retro a sparare a zero contro il carro armato. Ma prima che potesse mettersi in posizione venne preso dai tedeschi. Non so quello che Berdyshev disse ai tedeschi, ma immagino che indicò loro la strada del giardino perchè un’ora più tardi cominciarono ad attaccare esattamente in quel punto in cui io avevo messo la mitragliatrice con l’ultimo nastro di cartucce.
Questa volta, pensando che avessimo finito le munizioni, vennero avanti con sfacciataggine, in piedi e gridando. Venivano giù per la strada in una colonna serrata. Misi l’ultimo nastro nella mitragliatrice pesante piazzata alla finestra del seminterrato e scaricai tutti e duecentocinquanta i proiettili nel groviglio grigioverde e urlante dei nazisti. Fui ferito a una mano ma non lasciai andare la mitragliatrice. I cadaveri si ammucchiarono sul terreno. I tedeschi ancora vivi corsero a ripararsi in preda al panico. Un’ora più tardi portarono il nostro armiere su un cumulo di macerie e lo fucilarono davanti ai nostri occhi perchè aveva indicato loro la strada che portava diritto alla mia mitragliatrice.
Non ci furono più attacchi. Un diluvio di bombe cadde sull’edificio. I tedeschi ci bersagliavano con ogni arma possibile. Non potevamo nemmeno sollevare il capo.
E di nuovo sentimmo il funesto rumore dei carri armati. Da dietro un isolato vicino al nostro cominciarono a sgusciare fuori i pesanti carri armati tedeschi. Questa, evidentemente, era la fine. I soldati si salutarono l’un l’altro. Con il pugnale, il mio attendente incise su un muro : « Le guardie di Rodimtsev combatterono e morirono qui per il loro paese. »
Il 21 settembre entrambi i contendenti erano sfiniti. I tedeschi avevano ripulito tutto il letto del fiume Tsaritsa e avevano messo in postazione le loro armi a pochi metri dall’approdo centrale. Essi erano riusciti anche a penetrare in un’ampia zona di circa quattro chilometri quadrati dietro la stazione principale di Stalingrado tra le gole dello Tsaritsa e del Krutoy. Chuikov era stato costretto a trasferire il suo Quartier Generale dal bunker Tsaritsyn a Matveyev-Kurgan e, dato che l’approdo centrale era ormai inutilizzabile, la guarnigione dipendeva ormai interamente dai traghetti della fabbrica all’estremità settentrionale della città.
A questo punto i tedeschi furono quasi sul punto di conquistare il controllo completo della intera metà meridionale della città, per lo meno fino alla gola del Krutoy, in quanto solo una unità russa, la 92a brigata di fanteria, combatteva ancora a sud della Tsaritsa. Ma le forze di Hoth si trovarono seriamente impedite da un certo numero di centri’ isolati di resistenza che erano stati lasciati indietro dopo il primo attacco delle forze corazzate il 130 14 settembre. Questi capisaldi erano raggruppati soprattutto intorno ai giganteschi elevatori di grano; possediamo i diari degli uomini che sostennero, da una parte e dell’altra, uno di questi scontri.
Prima la testimonianza tedesca :
16 settembre. Il nostro battaglione, appoggiato da carri armati, attacca l’elevatore dal quale esce del fumo; il grano brucia, sembra che i russi gli abbiano dato fuoco. Barbari. Il battaglione patisce gravi perdite. Non rimangono più di sessanta uomini per compagnia. L’elevatore è occupato non da uomini ma da diavoli che nè i lanciafiamme nè i proiettili possono uccidere.
18 settembre. I combattimenti continuano dentro l’elevatore. I russi sono condannati. Il comandante del battaglione dice : « I commissari hanno ordinato a quegli uomini di morire nell’elevatore. »
Se tutti gli edifici di Stalingrado sono difesi in questo modo, nessuno dei nostri tornerà in Germania. Oggi ho ricevuto una lettera da Elsa. Mi aspetta a casa dopo la vittoria.
20 settembre. La battaglia per l’elevatore continua. I russi sparano da tutte le parti. Noi rimaniamo nello scantinato; non possiamo uscire in strada. Il’ser-gente maggiore Nuschke è stato ucciso oggi mentre attraversava di corsa la strada. Poveraccio, aveva tre figli.
22 settembre. La resistenza russa nell’elevatore è stata spezzata. Le nostre truppe avanzano verso il Volga. Abbiamo trovato circa quaranta russi morti nell’elevatore. La metà di loro indossava uniformi della marina. È stato preso un solo prigioniero gravemente ferito, che non può parlare o fa finta di non poter parlare.
Il prigioniero « gravemente ferito » era Andrey Khozyaynov, della brigata di fanteria marina e la sua versione dà un’idea interessante del carattere assunto dai combattimenti nelle strade di Stalingrado, dove il coraggio individuale e la tenacia di alcuni soldati e sottufficiali, spesso isolati e dati per perduti dai loro stessi comandi, potè influenzare l’intero sviluppo della battaglia.
La nostra brigata venne traghettata al di là del Volga durante la notte del 16 settembre e all’alba del 17 era già in azione.
Ricordo che la notte del 17, dopo un aspro combattimento, venni chiamato al comando del battaglione e mi venne dato l’ordine di andare con un plotone di mitraglieri all’elevatore e di tenerlo a qualunque costo insieme con gli uomini che vi si trovavano già. Arrivammo quella stessa notte e ci presentammo al comandante della guarnigione. In quel momento l’elevatore era difeso da un battaglione composto da non più di trenta o trentacinque soldati della guardia compresi i feriti, alcuni leggeri, altri gravi, che non era stato possibile trasportare nelle retrovie.
I soldati della guardia furono molto contenti di vederci arrivare e ci accolsero con scherzi e risate. Con il nostro plotone erano arrivati diciotto uomini bene armati. Avevamo due mitragliatrici di medio calibro e una mitragliatrice leggera, due fucili anticarro, tre mitra e una radiotrasmittente.
All’alba venne avanti da sud un carro armato tedesco con una bandiera bianca. Ci chiedemmo che cosa sarebbe successo. Due uomini uscirono dal carro armato, un ufficiale nazista e un interprete. Con l’aiuto dell’interprete, l’ufficiale cercò di convincerci ad arrenderci all’« eroico esercito tedesco » in quanto ogni difesa era inutile e noi non saremmo riusciti a tenere la nostra posizione per molto tempo ancora. « Meglio per voi cedere l’elevatore, » dichiarò l’ufficiale tedesco. « Se rifiutate vi tratteremo senza pietà. Nel giro di un’ora vi annienteremo a cannonate. »
« Che sfacciataggine, » pensammo e rispondemmo brevemente al tenente nazista: «Dite ai vostri nazisti di andare aH’inferno!... Potete tornare indietro, ma ci tornerete a piedi. »
Il carro armato tedesco cercò di battere in ritirata ma un colpo sparato da uno dei nostri due fucili anticarro lo fermò.
Di lì a poco fanteria e carri armati nemici in numero circa dieci volte superiore al nostro sferrarono un attacco da sud e da ovest. Dopo che il primo attacco fu respinto ne cominciò un secondo, quindi un terzo mentre un aeroplano da ricognizione volteggiava su di noi. L’aereo corresse il tiro dei nemici e riferì sulle nostre posizioni. Il 18 settembre respingemmo in tutto dieci attacchi.
Economizzammo le munizioni in quanto era molto difficile poterne avere delle altre.
Nell’elevatore il grano aveva preso fuoco, l’acqua delle mitragliatrici evaporava, i feriti erano assetati, ma non potevamo dar loro da bere. Ecco come ci difendemmo per ventiquattr’ore al giorno durante tre giorni. Caldo, fumo, sete... le labbra si spaccavano. Durante il giorno molti di noi salivano in cima all’elevatore e di là sparavano sui tedeschi; di notte scendevamo giù e formavamo un anello difensivo intorno all’edifìcio. La nostra radio era stata messa fuori uso fin dal primo giorno. Non avevamo alcun contatto con i nostri reparti.
Arrivò il 20 settembre. A mezzogiorno dodici carri armati nemici vennero avanti da sud e da ovest. Avevamo già finito le munizioni dei fucili anticarro e non avevamo più bombe a mano. I carri si avvicinarono all’elevatore da due parti e cominciarono a sparare a zero contro di noi. Ma nessuno cedette. Le mitragliatrici e i mitra continuarono a sparare sui soldati nemici impedendo loro di entrare nell’elevatore. Poi una Maxim, insieme con un mitragliere, venne colpita da una granata, mentre la postazione della seconda Maxim veniva colpita da uno shrapnel che piegò in due la canna dell’arma. Rimanemmo solo con una mitragliatrice leggera.
Le esplosioni scuotevano le mura di cemento armato; il grano era in fiamme. Non potevamo vederci a causa del fumo e della polvere, ma ci incoraggiavamo con delle grida.
Dietro i carri armati apparvero dei soldati tedeschi. Erano circa 150-200. Attaccavano con prudenza gettando davanti a loro delle bombe a mano.. Riuscimmo ad afferrare alcune bombe e a ributtargliele indietro.
Sul lato occidentale dell’elevatore i tedeschi riuscirono a entrare nell’edificio, ma noi immediatamente dirigemmo il nostro fuoco dalla parte da cui essi erano entrati.
Il combattimento infuriò nell’interno dell’edificio. Udivamo i passi e il respiro dei soldati nemici ma non potevamo vederli a causa del fumo. Sparavamo dove sentivamo del rumore.
La notte, durante una breve pausa, contammo le munizioni. Non ce n’erano rimaste molte: un caricatore e mezzo per la mitragliatrice, da venti a venticinque caricatori per ogni mitra e da otto a dieci caricatori per ogni fucile.
Difenderci con quelle poche munizioni era impossibile. Eravamo circondati. Decidemmo di fare una sortita verso sud, nella zona di Beketovka, in quanto i carri armati nemici si trovavano a nord e ad est dell’elevatore.
Durante la notte del 20, coperti dal fuoco dei nostri mitra, facemmo la sortita. Dapprincipio tutto andò bene; i tedeschi non ci aspettavano da quella parte. Passammo attraverso la gola e superammo la linea ferroviaria, quindi ci imbattemmo in una batteria di mortai nemici che era stata appena messa in postazione approfittando dell’oscurità. Rovesciammo i tre mortai e un camion carico di bombe. I tedeschi fuggirono lasciando sul terreno sette morti e abbandonando non solo le armi ma anche il pane e l’acqua. Noi stavamo morendo di sete. « Qualcosa da bere! Qualcosa da bere! » fu tutto quello che riuscimmo a pensare. Bevemmo a più non posso nell’oscurità. Quindi mangiammo il pane che avevamo preso ai tedeschi e andammo avanti. Ma ahimè, ciò che accadde ai miei compagni non lo so, perchè l’unica cosa che ricordo fu che riaprii gli occhi il 25 o il 26 settembre. Mi trovavo in una cantina scura e umida e mi pareva di essere tutto coperto da una sostanza oleosa. Non avevo abiti addosso e mi mancava la scarpa destra. Le mani e le gambe non mi obbedivano e la testa mi ronzava.
Si aprì una porta e alla luce del sole vidi un soldato con un’uniforme nera. Sulla manica sinistra c’era un teschio. Ero caduto nelle mani del nemico.
L’offensiva tedesca, che era cominciata così brillantemente, che aveva in poche settimane riaffermato la capacità della Wehrmacht di far tremare tutto il mondo, che aveva portato i confini del Reich nel punto più lontano, era ora innegabilmente bloccata. Per circa due mesi le mappe degli Stati Maggiori non vennero cambiate.
Il ministero della Propaganda affermava che era in corso la « più grande battaglia di logoramento che il mondo abbia mai visto » e pubblicava ogni giorno delle cifre che mostravano fino a che punto i sovietici si stessero dissanguando. Ma che i tedeschi ci credessero o no, i fatti erano molto diversi. Non l’Armata Rossa, ma i tedeschi erano ripetutamente costretti a puntare al « buio ». Con la stessa freddezza con cui si era rifiutato di impegnare la riserva siberiana fino a che la battaglia di Mosca non fosse stata decisa, Zukov limitava al minimo i rinforzi alla LXII armata. Durante due diffìcili mesi, dal i° settembre al i° novembre, solo cinque divisioni di fanteria vennero inviate al di là del Volga: appena sufficienti per coprire le « perdite ». Eppure in quel periodo venivano costituite ventisette nuove divisioni di fanteria e diciannove brigate corazzate con nuovo materiale e con quadri di ufficiali e sottufficiali esperti. Erano tutte concentrate nella zona fra Povorino e Saratov, dove completavano l’addestramento e da dove alcune venivano mandate a turno nel settore centrale per fare brevi esperienze in linea. Così, mentre i tedeschi logoravano lentamente, a causa della stanchezza e delle perdite, tutte le loro divisioni, l’Armata Rossa si costituiva una formidabile riserva di uomini e mezzi corazzati.
Alla delusione di rimanere bloccati a un passo (così sembrava) dalla vittoria completa, si unì presto un cattivo presentimento che andò aumentando mentre le settimane passavano, una dopo l’altra, e le truppe rimanevano sempre sulle stesse posizioni.
Si avvertiva ormai chiaramente che i giorni stavano di nuovo accorciandosi. Di mattina l’aria era molto fresca. Avremmo dunque continuato a combattere durante un altro di quegli spaventosi inverni? Pensavo che ciò fosse al di sopra delle nostre forze. Molti di noi sentivano che sarebbe valsa la pena di pagare qualunque prezzo pur di finire prima dell’inverno.
Mentre il morale degli uomini subiva gli alti e bassi del parossismo e della depressione, recriminazioni e contrasti personali vennero a turbare la guida del gruppo di armate al più alto livello.
I primi a cominciare furono due generali carristi, Wietersheim e Schwedler. In sostanza essi si lamentavano che le divisioni corazzate venissero logorate in operazioni alle quali erano completamente inadatte e che con qualche altra settimana di combattimenti per le strade non sarebbero state più in grado di adempiere il loro compito precipuo, quello cioè di impegnare le forze corazzate nemiche in battaglie di movimento. Tuttavia, poiché il protocollo militare non consente ai comandanti delle unità, per quanto illustri, di sollevare obiezioni sul piano strategico, essi decisero di protestare su una questione tattica più ristretta.
II generale von Wietersheim comandava il XIV corpo d’armata Panzer che era stata la prima unità della VI armata a raggiungere il Volga a Rynok in agosto. Egli non può essere certo accusato di essere un pavido in quanto aveva guidato il suo corpo d’armata nel 1940 attraverso la Francia settentrionale immediatamente alle calcagna di Guderian ed era stato uno dei pochi ufficiali dell’Esercito tedesco che avevano proposto l’immediato passaggio della Mosa. Wietersheim disse a Paulus che l’azione di logoramento effettuata dall’artiglieria russa, che sparava da entrambi i lati del corridoio di Rynok, stava avendo tali effetti sui suoi Panzer che essi avrebbero dovuto essere ritirati e il corridoio avrebbe dovuto essere mantenuto aperto dalla fanteria. Wietersheim venne destituito, rispedito in Germania e terminò la sua carriera militare nel 1945 come soldato semplice della Volkssturm in Pomerania.
Il generale von Schwedler era il comandante del IV corpo d’armata Panzer e aveva comandato l’ala meridionale durante la controffensiva contro la puntata di Timoscenko su Kharkov nel maggio. Il suo caso è interessante perchè egli fu il primo generale ad ammonire contro il pericolo di concentrare tutte le forze corazzate all’estremità di uno « Schwerpunkt morto » e contro la vulnerabilità di fronte ad un attacco russo alle ali.3 Ma nell’autunno del 1942 l’idea che i russi potessero attaccare veniva considerata come « disfattista », ed anche Schwedler venne destituito.
La terza testa a cadere fu quella del colonnello generale List, comandante in capo del Gruppo di Armate A. Dopo la prima rapida avanzata attraverso il Kuban, che aveva portato, alla fine di agosto, la I armata Panzer a Mozdok, il fronte dell’avanzata tedesca si era stabilizzato lungo i margini della catena del Caucaso e il corso del fiume Terek. Diversi fattori avevano contribuito a ciò, soprattutto il ritiro dei bombardieri di Richthofen, inviati a Stalingrado, e una certa ripresa dei difensori. Kleist aveva notato:
Nelle prime fasi... incontrai una scarsa resistenza organizzata. Non appena le forze russe venivano superate, la maggior parte dei soldati sembrava preoccuparsi più di tornare a casa che di continuare a combattere. Era ben diverso da ciò che era accaduto nel 1941. Ma quando avanzammo nel Caucaso ci trovammo di fronte a forze costituite da truppe locali che combattevano più tenacemente perchè lottavano per difendere le loro case. La loro ostinata resistenza fu tanto più efficace in quanto il terreno era molto difficile...
Di conseguenza, il primo piano per l’occupazione dei campi petroliferi venne mutato e I’Okw ordinò a List di aprirsi la strada attraverso il basso Caucaso all’estremità occidentale e occupare Tuapse. Vennero inviati invece alla XVII armata dei rinforzi, comprese tre divisioni da montagna che sarebbero state molto utili a Kleist. Se questa manovra avesse avuto successo, i tedeschi avrebbero fatto irruzione attraverso la parte più bassa del Caucaso e, occupando Batum, avrebbero costretto la flotta russa del Mar Nero a internarsi, assicurandosi al tempo stesso la Crimea e la compiacente neutralità della Turchia. In effetti le difficoltà vennero l’una dopo l’altra, e nonostante i rinforzi, List fece scarsi progressi. Nel settembre Jodl venne inviato, quale rappresentante dell’OKW, al Quartier Generale di List per far presente « l’impazienza del Fiihrer » e per cercare di smuovere le cose.
Ma quando Jodl ritornò portava cattive notizie.
List aveva agito in conformità con gli ordini del Fiihrer, ma la resistenza russa era forte dovunque e si appoggiava a un terreno molto difficile.
Warlimont sostiene che Jodl rispose ai rimproveri di Hitler (e se lo fece fu certamente la prima e l’ultima volta) mettendo in evidenza
il fatto che Hitler con i suoi ordini aveva indotto List ad avanzare su un fronte troppo esteso.
Il risultato fu « una scenata » e Jodl cadde in disgrazia.
Altra conseguenza tu che Hitler cambiò completamente le sue abitudini quotidiane. Da allora non prese più i due pasti principali in compagnia del suo entourage. Da allora non lasciò quasi più la sua baracca durante il giorno nemmeno per i quotidiani rapporti sulla situazione militare, che da allora in poi ebbero luogo nel suo alloggiamento in presenza di un ristretto gruppo di persone. Egli rifiutò ostinatamente di stringere le mani ai generali dell’OKW e diede ordini perchè Jodl fosse sostituito da un altro ufficiale.
La sostituzione di Jodl non ebbe mai luogo e il capo di Stato Maggiore dell’OKW tornò presto nelle grazie di Hitler, avendo imparato, come confidò a Warlimont, che
un dittatore, per una questione psicologica, non tollera che gli si ricordino i propri errori in quanto ha bisogno di mantenere la fiducia in se stesso, prima fonte della sua forza dittatoriale.
Nondimeno, la probabilità della designazione venne debitamente comunicata all’« altro ufficiale » interessato, con i risultati che si vedranno.
Tuttavia, prima di seguire ulteriormente questa storia di ambizioni e di intrighi, bisogna ricordare un altro licenziamento e gli effetti che esso ebbe sul funzionamento del Quartier Generale del Fiihrer. I rapporti fra Hitler e Haider erano andati sempre peggiorando dopo la rimozione del cedevole ObdH, che aveva funzionato da ammortizzatore fra la violenza di Hitler e la spigolosità del capo di Stato Maggiore. Manstein, che li aveva visti insieme in agosto, allorché si trovò a passare dal Quartier Generale nell’andare ad assumere il comando a Leningrado, rimase « sgomentato » nel vedere quanto cattivi fossero i loro rapporti. Hitler scherniva Haider a causa della sua mancanza di esperienza di combattimento, in contrasto con le esperienze da lui fatte al fronte durante la grande guerra. Haider rispondeva a mezza bocca sottolineando le differenza fra il parere di un competente e di un « incompetente ».
La faccenda giunse a una crisi a proposito di una questione di secondaria importanza relativa al fronte centrale. Molti comandanti tedeschi e soprattutto Kluge (che era direttamente interessato) ritenevano che la controffensiva che i russi avrebbero certamente sferrato nell’inverno sarebbe stata diretta contro il Gruppo di Armate del Centro. Questa convinzione era in parte da attribuire al sistema, seguito dai russi, di dare alle loro nuove divisioni il battesimo del fuoco nel tranquillo settore centrale prima di rispedirle nella riserva strategica. Le nuove divisioni venivano identificate e poi sembrava che sparissero. Kluge e Haider si formarono l’erronea convinzione che esse venissero ammassate nelle retrovie del fronte, sul quale erano state identificate, e non, come invece avveniva in realtà, che venissero mandate a sud. Comunque sia, fra Hitler e Haider scoppiò un litigio piuttosto bambinesco sulla data in cui una di queste unità era stata identificata; la disputa tirò in ballo problemi più importanti (e soprattutto la necessità, secondo Haider, di rinforzare Kluge) e, indirettamente, la questione delle condizioni di eccessivo logoramento in cui si trovava la Wehrmacht.4 Il 24 settembre Haider venne licenziato e il colonnello generale Kurt Zeitzler venne richiamato dal fronte occidentale per prendere il suo posto.
La circostanza del licenziamento di Haider è particolarmente interessante per gli storici della seconda guerra mondiale a causa di un mutamento intervenuto in quel tempo nella prassi delle riunioni quotidiane del Fiihrer. Queste riunioni erano diventate la sede in cui si dirigeva la guerra e si emanavano direttive. Il vecchio apparato del-I’okh era andato decadendo fin dalla rimozione di Brauchitsch e la vera colpa di Haider, agli occhi di Hitler, era quella di aver cercato di riservare all’oKH (e quindi a se stesso) alcune delle vecchie prerogative del Generalstab, e di aver accettato senza entusiasmo la « nomina » di Hitler a comandante in capo dell’Esercito, facendo capire di ritenerla nulla più che una misura puramente temporanea. Con l’avvento di Zeitzler, il quale non ricordava il tempo in cui I’okh dirigeva la campagna orientale e Hitler non era altro che una voce petulante all’altro capo di una linea telefonica in cattive condizioni, l’accentramento della direzione tattica e strategica sarebbe stato completo. L’ultimo passo nella trasformazione delle riunioni quotidiane a sede prima del processo esecutivo fu la partecipazione alle sedute di stenografi che registravano fedelmente ogni parola detta da ciascuno dei presenti. I verbali rimasti sono di enorme importanza, in quanto mostrano come la guerra venisse condotta dai tedeschi, e ogni volta che essi toccano la campagna orientale verranno ampiamente citati in quest’opera.5
Uno di coloro che beneficiarono del rimpasto del Quartier Generale di Hitler fu il leale e volonteroso nazista generale Schmundt (che il lettore ricorderà mentre cercava di aiutare Guderian con i suoi « problemi » durante l’estate precedente 6 e che verrà di nuovo incontrato più tardi in una situazione meno felice). Schmundt venne promosso dalla carica piuttosto vaga di primo aiutante di Hitler a quella di capo dell’ufficio personale dell’Esercito, dove godè di notevoli poteri in fatto di trasferimenti e assegnazioni. Paulus « pensò che avrebbe dovuto mandare a Schmundt le sue congratulazioni ».
Non molto dopo Schmundt si recò al Quartier Generale di Paulus e il comandante della VI armata subito ne approfittò per lagnarsi delle condizioni delle truppe, della scarsezza di materiali, della forza della resistenza russa, dei pericoli che si correvano se la VI armata si fosse logorata troppo, e così via. Forse accennò al testo della Direttiva n. 41 secondo cui egli doveva limitarsi a tenere il Volga sotto il tiro dell’artiglieria, perchè senza dubbio questo l’aveva fatto.
Schmundt, tuttavia, aveva in serbo l’unica risposta alla quale un comandante non sa mai resistere. Dopo alcune osservazioni circa il desiderio del Fuhrer di vedere « giungere a felice conclusione » le operazioni a Stalingrado, gli diede la entusiasmante notizia. L’« altro ufficiale » designato per il posto di capo di Stato Maggiore al-I’okw era lo stesso Paulus! È vero che la caduta in disgrazia del generale Jodl in quel momento aveva subito una battuta d’arresto, ma Paulus era stato « senz’altro designato » per un incarico più importante e il generale von Seydlitz avrebbe preso il suo posto a capo della VI armata.
Paulus sarebbe stato un buon ufficiale di Stato Maggiore; come comandante di una grande unità era lento e privo di fantasia fino al punto da rasentare l’ottusità. È altrettanto certo, come dimostra la sua carriera prima e dopo la cattura, che egli sapeva individuare dove fossero le fonti del potere o, per dirla più chiaramente, che sapeva quello che faceva al caso suo. Dopo aver appreso da Schmundt qual era la posta in gioco, si impegnò con particolare entusiasmo nei preparativi di una quarta offensiva.
Questa volta Paulus aveva deciso di colpire direttamente il punto più forte del nemico: i tre giganteschi complessi delle fabbriche Trattore, Barricata e Ottobre Rosso, che sorgevano nella parte nord della città, uno dietro l’altro, a poche decine di metri dalle rive del Volga. Questa fu la più aspra e la più lunga delle cinque battaglie combattute nella città distrutta. Cominciò il 4 ottobre e infuriò per circa tre settimane.
Paulus era stato rinforzato da diversi reparti di specialisti fra cui i battaglioni di polizia e di genieri esperti nei combattimenti per le strade e nel lavoro di demolizione. Ma i russi, sebbene si trovassero ora in condizione di grave inferiorità numerica, rimanevano maestri nella tecnica del combattimento da casa a casa. Essi avevano perfezionato l’impiego dei « gruppi d’assalto », piccoli reparti dotati di armi diverse — mitragliatrici leggere e pesanti, mitra e pezzi anticarro — che si appoggiavano reciprocamente nei fulminei contrattacchi ; inoltre avevano creato delle « zone mortali » nelle case e nelle piazze densamente minate, di cui i difensori conoscevano tutte le vie di accesso sulle quali veniva canalizzata l’avanzata tedesca. « L’esperienza ci insegnò, » scrisse Chuikov :
... ad avvicinarci alle posizioni del nemico; a muoverci carponi sfruttando le buche e le macerie; a scavare le trincee di notte e a mimetizzarle di giorno; a prepararci all’attacco senza fare alcun rumore; a portare il mitra sulle spalle; a portare da dieci a dodici bombe a mano. La tempestività e la sorpresa saranno allora nostre alleate...
... In una casa si entra in due : tu e una bomba a mano; entrambi senza troppi impacci: tu senza lo zaino, la bomba a mano senza la sicura; prima va dentro la bomba a mano, poi ci vai tu; entra in tutti i locali della casa, e sempre prima la bomba a mano e poi tu...
...C’è un’altra regola precisa ora: fatti spazio! Ad ogni passo è in agguato il pericolo. Non importa: una granata in ogni angolo della stanza, poi avanti! Una raffica di mitra su ciò che è rimasto; ancora un po’ più avanti: un’altra bomba a mano e poi ancora avanti! Un’altra stanza: una bomba a mano! Una voltata : un’altra bomba a mano! Una raffica con il mitra! E poi avanti!
All’interno dell’edifìcio che tu attacchi il nemico può passare al contrattacco. Non avere paura! Tu hai già preso l’iniziativa, è nelle tue mani. Agisci con decisione servendoti della tua bomba a mano, del tuo mitra, del tuo pugnale e della tua baionetta! Il combattimento dentro un edifìcio è sempre confuso. Perciò sii sempre pronto ad ogni evenienza. Tieni gli occhi aperti!...
Lentamente e a carissimo prezzo i tedeschi avanzavano a palmo a palmo nei grandi edifici, attraverso gli ampi locali della fabbrica; in mezzo ai macchinari fermi, nelle fonderie, nelle sale di montaggio, negli uffici. « Mio Dio, perchè ci hai abbandonato? » scriveva un tenente della 24* divisione Panzer.
Durante quindici giorni abbiamo combattuto per il possesso di una sola casa con mortai, bombe a mano, mitragliatrici e baionette. Già al terzo giorno cinquantaquattro cadaveri tedeschi si ammucchiavano nelle cantine, sui pianerottoli e sulle scale. La linea del fronte passa per un corridoio fra le stanze bruciate; è costituita dal sottile soffitto fra due piani. I rinforzi vengono dalle case vicine attraverso le scale di sicurezza e i camini. Si combatte incessantemente da mezzogiorno fino a notte. Da un piano all’altro, con le facce sporche di sudore, ci prendiamo di mira con le bombe a mano, nel frastuono delle esplosioni, fra nuvole di polvere e di fumo, mucchi di macerie, fiumi di sangue, pezzi di mobilia e di corpi umani. Chiedete a qualsiasi soldato che cosa significhi mezz’ora di lotta a corpo a corpo in simili condizioni. E poi pensate a Stalingrado; ottanta giorni e ottanta notti di lotte a corpo a corpo. Le strade non si misurano più a metri ma a cadaveri...
Stalingrado non è più una città. Di giorno è una enorme nuvola di fumo accecante; è una grande fornace illuminata dai riflessi delle fiamme. E quando arriva la notte, una di quelle tremende, spaventose, sanguinose notti, i cani si tuffano nel Volga e nuotano disperatamente per raggiungere l’altra sponda. Le notti di Stalingrado li terrorizzano. Gli animali fuggono da questo inferno; le pietre più dure finiscono per cedere; solo gli uomini resistono.
NOTE:
1 II punto centrale del perimetro francese a Verdun. Per una descrizione dell’assedio (forse la più bella descrizione di un combattimento ravvicinato nella grande guerra) v. Alistair Horne, The Prie e of Glory.
2 A causa del fatto che i russi riservavano una morte particolare ai Flammen-werfer presi prigionieri, questi venivano definiti nei libri-paga come « Genieri di 1a classe», sebbene percepissero paghe anche più alte.
3 Praticamente ogni comandante tedesco del teatro di operazioni sud si attribuisce ora il merito di questa previsione. In realtà, sembra che essa debba essere attribuita a Schwedler o a Blumentritt. Blumentritt, mandato per un giro d’ispezione sul fronte del Don fra Voronezh e Kletskaia, presentò un rapporto per chiarire che «... non sarebbe prudente mantenere un fianco difensivo così lungo durante l’inverno ». Goerlitz colloca l’epoca di questa ispezione all’inizio di agosto, ma lo stesso Blumentritt, interrogato, disse che avvenne in settembre.
4 Molti contestano che l’allontanamento di Haider fosse provocato dal suo rifiuto di autorizzare ulteriori operazioni offensive a Stalingrado fino a che il fianco del Don non fosse stato rafforzato (Leyderrey, Goerlitz, Blumentritt, lo stesso Halder, ecc.). Ma la serie di ragionamenti che dovrebbero sostenere questa affermazione è poco convincente. V. l’affermazione esplicita di Warlimont:
« Fu da questo argomento [l’attività russa contro il Gruppo di Armate del Centro a Rzhev] che ebbe origine lo scontro finale fra Hitler e Haider, che portò alla destituzione di quest’ultimo. » (Liddell Hart, Op. cit., pag. 220).
5 Sul carattere e le origini di questo materiale importantissimo si parla diffusamente nella Nota sulle Fonti.
6 V. pag. 106.