La battaglia di Stalingrado film
La battaglia di Stalingrado
brano tratto da R.Overy - "La strada della vittoria", Il mulino 2002
Quattro secoli fa sul grande Volga, all’altezza della stretta ansa dove esso volge a sud-est per percorrere, circondato da paludi, le ultime trecento miglia verso l’Astrakan e il mar Caspio, i cosacchi fondarono una cittadina commerciale, Caricyn; attraverso questo tipico centro di provincia punteggiato di case di legno e piccoli pontili, passava la ricca produzione del Caspio e del Caucaso. Tutto sembrava destinato a rimanere per sempre immutato se non fosse stato per la rivoluzione russa del 1917, quando Caricyn si ritrovò nel bel mezzo della feroce guerra civile tra le nuove forze bolsceviche e l’Armata bianca, un variopinto schieramento di controrivoluzionari e cosacchi autonomisti. I Bianchi presero d’assedio Caricyn nell'autunno del 1918, respingendo l’Armata rossa fino a lasciarle solo un piccolo territorio a ferro di cavallo tutto intorno alla città sulla sponda occidentale del Volga. La popolazione iniziò a sfollare; i capi bolscevichi locali inviarono messaggi disperati a Mosca per avere rinforzi e armi di qualunque tipo, ma non ebbero per risposta che un telegramma che li esortava a resistere: «Caricyn non deve essere abbandonata in nessun caso»1.
La città fu salvata, secondo la leggenda sovietica, dall'iniziativa di un solo uomo, il presidente locale del comitato militare, Iosif V. Dzugasvili, che nel 1913 aveva adottato il soprannome Stalin, vale a dire «acciaio». Spingendo i compagni a combattere fino alla morte piuttosto che abbandonare la città, disobbedì agli ordini di Mosca richiamando una divisione dell’Armata rossa dal Caucaso; la «divisione d’acciaio» di Zloba, dopo una marcia forzata di trecento miglia, si lanciò sulle retrovie dell’esercito cosacco e capovolse le sorti della battaglia. Un mese più tardi Stalin fu promosso al Consiglio della difesa nazionale a Mosca. Un anno dopo era di nuovo sul fronte meridionale al comando di una campagna che andava da Kursk, un centro della steppa, attraverso Caricyn, giù fino al Caucaso. Ancora una volta Stalin si dimostrò indispensabile nel salvare la regione dalle armate controrivoluzionarie. Per i suoi successi sul Volga, Caricyn divenne la sua città: Stalingrado.
Ventiquattro anni più tardi, per uno strano scherzo della storia, Stalin si trovò ancora una volta a difendere la città, in circostanze assai più critiche; nell'autunno del 1942 le forze tedesche raggiunsero infatti il punto più avanzato della loro invasione, i passi innevati delle montagne del Caucaso e le rive del Volga sui due lati di Stalingrado. Nei decenni tra questi due assedi la città era cambiata fino ad essere irriconoscibile; era diventata un centro industriale di primaria importanza che si estendeva disordinatamente lungo il fiume per una lunghezza di 40 miglia. Il suo mezzo milione di abitanti lavorava soprattutto nelle nuove fabbriche dove si producevano grandi quantità di trattori per sostenere la rivoluzione agricola del regime e, negli ultimi tempi, un gran numero di carri armati. La città era uno snodo vitale per il commercio sovietico: i prodotti industriali e i macchinari venivano dal nord; un flusso costante di grano e petrolio arrivava dalla direzione opposta. Anche Stalin era cambiato: era ormai la principale autorità dello stato sovietico nonché comandante supremo delle forze armate, e aveva molto più potere che nel 1918, e armate a disposizione ben più grandi. Su di lui solo pesava ancora una volta la responsabilità di salvare la città e il sistema sovietico sotto assedio. Il 28 luglio 1942 emanò un duro ordine per le truppe che tentavano disperatamente di fermare l’avanzata tedesca: «Non arretrare di un passo!». Per quattro mesi rimasero aggrappate allo stesso territorio a ferro di cavallo, mentre Stalin riviveva gli incubi della guerra civile.
Poi, un po’ alla volta, l’ago della bilancia si spostò: ancora una volta le armate sovietiche si lanciarono sulle retrovie dell’esercito nemico infliggendogli la prima pesante sconfitta della guerra. Nei dodici mesi successivi l’Armata rossa spinse le forze tedesche fuori da gran parte della Russia occidentale, su un ampio fronte che andava da Kursk al Caucaso; queste vittorie sovietiche segnarono il punto di svolta dell’intero conflitto, come il successo del 1919 aveva capovolto le sorti della guerra civile. Nel dicembre 1942 Stalin promosse 360 ufficiali al rango di generale per aver salvato la città che portava il suo nome. Nel marzo 1943 attribuì a se stesso il primo titolo militare formale, maresciallo dell’Unione Sovietica.2
Quando le forze tedesche rinnovarono l’assalto agli inizi dell’estate del 1942, Stalingrado non era tra le priorità più immediate di Hitler, il suo unico pensiero essendo quello di ottenere una vittoria decisiva, che annullasse l’Armata rossa e distruggesse il nemico bolscevico definitivamente; una volta sistemato il fronte orientale, le risorse tedesche potevano poi essere indirizzate alla sconfitta degli Alleati a occidente. Il problema era trovare il luogo dove assestare il colpo. I capi militari tedeschi preferivano un attacco al centro del fronte per impadronirsi della capitale, Mosca, nella quale era concentrato il grosso dell’esercito sovietico^a " caduta della città avrebbe avuto effetti devastanti sul morale del paese. Hitler la pensava diversamente: se la conquista dell’Unione -Sovietica nasceva da un’ispirazione ideologica, era però motivata dalla bramosia di beni materiali. Hitler voleva le industrie, il petrolio e il grano della Russia meridionale, dove si trovava il vero e proprio Lebensraum, lo spazio vitale. Riteneva che se la Germania si fosse assicurata queste risorse, lo sforzo bellico sovietico sarebbe stato bloccato, mentre il Terzo Reich sarebbe divenuto
praticamente invincibile. Il 5 aprile emise la direttiva per la nuova campagna estiva: un attacco generalizzato a meridione contro là Crimea, le steppe del Don e il Caucaso3.
Le forze sovietiche furono colte con la guardia abbassata, come era già successo l’estate precedente Stalin si era aspettato la strategia proposta dai consiglieri di Hitler, che cioè venisse rinnovato l’assalto a Mosca e Leningrado con l’obiettivo di circondare e sconfiggere il grosso dell’Armata rossa. Quando un piccolo aereo tedesco si schiantò dietro le linee sovietiche in giugno con tutti i dettagli dell’attacco programmato sul fronte meridionale lo considerò un rozzo tentativo di far passare informazioni fuorviami. Anche dopo che gli inglesi ebbero inviato informazioni sullo schieramento tedesco raccolte decifrando i segnali radio del nemico, Stalin non si fidò delle argomentazioni britanniche più di quanto si fosse fidato degli avvertimenti relativi al piano «Barbarossa» nel 1941 4. Il 28 giugno le forze tedesche iniziarono la campagna meridionale, l’operazione «Blu», contro la parte più debole dell’intero fronte sovietico, che fu colto assolutamente di sorpresa.
p II risultato fu quasi una ripetizione di quello che era accaduto estate precedente. Le forze tedesche si aprirono una via usando una combinazione di grandi concentrazioni di carri armati e un imponente dispiegamento di forze aeree. Nel giro di poche settimane l’Armata rossa fu respinta da tutta la zona a sud di Charkov e la Crimea fu conquistata. Numerosi soldati sovietici vennero fatti prigionieri o si ritirarono disordinatamente a oriente. Sebastopoli, un porto sul mar Nero, resistette contro un soverchiarne attacco aereo e d’artiglieria finché non si arrese, il 4 luglio, al generale Erich von Manstein, il cui premio fu la promozione a feldmaresciallo. Il crollo della resistenza sovietica minacciava di trasformarsi in una disfatta: Rostov sul Don, a oriente della Crimea, cadde senza opporre molta resistenza il 23 luglio. Hitler era ormai acquartierato in Ucraina, poco più a nord della città di Vinnica; la base estiva, chiamata in codice «Lupo mannaro», consisteva di un piccolo gruppo di capanne di legno nascoste nei boschi. Fu qui che Hitler, a disagio per l’intenso caldo afoso, in preda a crisi di insonnia e di pressione alta, ricevette le prime notizie del notevole progresso delle forze tedesche. Nonostante il clima, il suo umore migliorò: la vittoria che gli era sfuggita nel 1941 era più vicina, il nemico «assai più debole» dell’anno precedente.
Impaziente di arrivare alla prova di forza finale, negli ultimi giorni di luglio Hitler decise di accelerare la campagna sul fronte meridionale. Divise le proprie armate in due gruppi distinti, A e B. Il primo gruppo di armate ricevette l’incarico di spingersi oltre il Don all'inseguimento delle forze sovietiche in ritirata e di conquistare l’intera costa del mar Nero e la regione caucasica fino alle città petrolifere di Majkop, Baku e Grozny; questa vasta area avrebbe dovuto essere conquistata in poche settimane dalla la armata corazzata, agli ordini del feldmaresciallo von Kleist. Il secondo gruppo, la 6a armata e la 4a armata corazzata, sotto il comando del generale Paulus, ebbe ordine di avanzare verso Stalingrado, distruggere le forze sovietiche sul Volga e procedere rapidamente verso la foce del fiume fino all’Astrakan, tagliando le comunicazioni tra nord e sud. Stalingrado divenne per la prima volta un obiettivo di importanza primaria: una sua «rapida distruzione» era per Hitler «di particolare importanza».
In quasi tutti i resoconti postbellici della sconfitta tedesca in Unione Sovietica, questa decisione di dividere le forze tedesche per il conseguimento di lontani obiettivi economici alla fine dell’estate 1942 viene considerato l’errore fatale da parte di Hitler, ma è facile capire perché egli fosse tentato da questa mossa. Le forze tedesche avevano conquistato ampie porzioni di territorio in giugno e luglio, mentre quelle sovietiche erano chiaramente allo sbando. In Africa settentrionale Rommel stava respingendo le forze britanniche in Egitto. Un rapido colpo nel Caucaso apriva alla Germania la prospettiva di un controllo totale sul Medio Oriente; una veloce vittoria a Stalingrado apriva la possibilità di una rapida avanzata anche in direzione opposta, in un’ampia manovra di aggiramento a nord-est, alle spalle di Mosca. Hitler a quanto pare non si rendeva conto dell’entità dell’azzardo nell’estate del 1942, ma continuava a credere che la sua strategia improvvisata gli avrebbe consentito di raggiungere risultati maggiori di quanto gli sarebbe stato possibile seguendo i più miti consigli dei professionisti.
Il suo Stato maggiore vedeva le cose in maniera assai più ragionevole, ritenendo poco sensato inviare le proprie unità a occupare semplicemente la steppa deserta contro un nemico che per il momento aveva impegnato solo una frazione delle sue forze nel conflitto meridionale. Il 23 luglio, il giorno in cui Hitler inviò la direttiva per la nuova offensiva, il capo di Stato maggiore, il generale Franz Halder si rammaricò nel proprio diario che l’erronea valutazione del nemico da parte di Hitler fosse «risibile e pericolosa allo stesso tempo»7. Le facili vittorie dell’estate erano state ottenute contro forze deboli, che avevano evitato la disfatta ritirandosi attraversi i vasti spazi della Russia centrale. Quanto più le forze tedesche avanzavano sul fronte meridionale, tanto più si disperdevano. Si sviluppò un lungo fianco vulnerabile lungo l’intera ala settentrionale dell’offensiva, difeso soprattutto dagli alleati della Germania: l’Ungheria, la Romania e l’Italia. I treni con i rifornimenti dovevano seguire le truppe con il carburante e le munizioni su lunghi e pericolosi tragitti, mentre le misere strade e ferrovie erano costantemente sotto il tiro dei partigiani sovietici. Hitler non volle sentire obiezioni: rimproverò i suoi comandanti per la loro esitazione, accusandoli persino di disfattismo, e diede il benservito a quanti non erano d’accordo. Gli eventi diedero inizialmente ragione al suo ottimismo: la prima armata corazzata si lanciò sulla pianura settentrionale del Caucaso, avanzando rapidamente attraverso le ricche distese di grano e i frutteti rigogliosi; nel giro di dodici giorni era avanzata di 350 miglia fino ai piedi delle montagne del Caucaso. Qui le forze alpine tedesche e italiane, addestrate alla guerra in montagna, iniziarono la lenta ascesa ai passi montani. Nel frattempo le armate di Paulus si spostavano con decisione a oriente, ripulendo la steppa del Don dalle truppe sovietiche, costringendole ad arretrare fino alle vie d’accesso a Stalingrado. Il 19 agosto ebbe inizio il primo assalto alla città, il 23 i soldati tedeschi avevano raggiunto i sobborghi. «Il morale era altissimo», come ricordava un testimone diretto al quartier generale «Lupo mannaro».
Alla prima serie di vittorie tedesche la società sovietica fu colta dal panico. Le popolazioni del meridione iniziarono a spostarsi verso oriente in una fuga precipitosa da un nemico che avevano iniziato a credere inarrestabile. A Rostov sul Don persino le truppe furono contagiate dal timore di cosa sarebbe accaduto loro se fossero state catturate dai tedeschi. Nel momento più drammatico della crisi di demoralizzazione arrivò lo storico ordine «n. 227» da Stalin in persona: l’Armata rossa doveva opporre resistenza senza cedere terreno all'invasore oppure tutti i suoi uomini sarebbero tutti stati considerati criminali e disertori. La Nkvd, la tristemente nota polizia politica sovietica, fece una retata di tutti coloro che erano considerati disfattisti e sabotatori, mentre la propaganda nazionale chiamava il popolo sovietico allo sforzo decisivo fino al martirio per la Madre Russia. Il panico svanì, rimpiazzatola uno sfato a animo di cupa determinazione. Il pubblico moscovita affollava i concerti patriottici di Cajkovskij? Si invocarono grandi eroi del passato, privi di coloriture socialiste, per ispirare una resistenza eroica e l’odio per il nemico. Il giornalista Alexander Werth, che visse a Mosca per tutto il periodo più buio della guerra, ricordava che l'odio raggiunse «un parossismo frenetico» durante le difficili settimane di luglio e agosto. La poesia di Aleksej Surkov lo odio fai pubblicata nel giornale dell’esercito «Stella Rossa» il 12 agosto:
Il mio cuore è duro come pietra.
Li odio profondamente.
La mia casa fu insozzata dai prussiani,
quelle risate ebbre mi offuscano la mente. E con queste mie mani,
no per uno voglio strozzarli!
Poche settimane prima la «Pravda» aveva pubblicato un editoriale su L’odio per il nemico: «Possa il sacro odio divenire il nostro principale, unico sentimento»9.
Non fu solo il timore dell’NKVD a indurre il popolo sovietico a continuare a combattere nel 1942, ma un’ampia e spontanea rinascita del patriottismo e un’ondata di repulsione per la brutalità dei tedeschi. La rinascita fu deliberatamente alimentata dal regime: si riaprirono le chiese e si incoraggiò la frequentazione delle funzioni dopo anni di persecuzioni. La «Pravda» iniziò, cosa senza precedenti, a scrivere in maiuscolo la parola «Dio»10. Stalin si dedicò a costruire legami tra l'Armata rossa e le tradizioni del passato imperiale? Nel 1942 furono create nuove medaglie per atti di eroismo che portavano i nomi dei grandi generali zaristi: Kutuzov, Suvorov, Nachimov. In modo ancor meno ortodosso, sì introdusse una medaglia riservata ai soli ufficiali, l’Ording Aleksandr Nevskij, un’onorificenza dei tempi zaristi; e nel pieno della battaglia di Stalingrado fu annunciato che gli ufficiali avrebbero ancora una volta indossato mostrine che li distinguessero e spalline d’oro per instillare un senso d’orgoglio e disciplina in un esercito che fino a quel momento non aveva conosciuto distinzioni di classe.
Le medaglie e le mostrine non sarebbero bastate a sconfiggere l’esercito tedesco, ma erano le manifestazioni esteriori di uno sforzo più fondamentale messo in opera dal comando supremo sovietico (Stavka) per ridare all’Armata rossa fiducia in sé e i mezzi per una resistenza efficace. Nonostante il rapido successo delle forze tedesche al sud, il bilancio globale tra i due schiera-menti era più equilibrato di quanto suggerisse la situazione sul fronte meridionale. All’inizio della campagna estiva le forze sovietiche disponevano di cinque milioni e mezzo di uomini, contro i sei milioni delle armate tedesche e dei loro alleati. Entrambi gli schieramenti possedevano grosso modo lo stesso numero di mezzi aerei, poco più di 3.000; l’esercito sovietico disponeva di 4.000 carri armati, quello tedesco di 3.200. Lungo tutta l’area della Russia settentrionale e centrale i due schieramenti avevano eretto un’enorme barricata difensiva, ed era qui che erano concentrate le forze sovietiche, a protezione di Mosca e della zona centrale della Russia. Solo a sud erano in notevole svantaggio: a luglio i 187.000 soldati sovietici qui dislocati, con 360 carri armati e 330 aerei, si trovarono infatti ad affrontare una forza di 250.000 uomini, 740 carri armati e 1,200 aerei 11. Fu questa temporanea disparità a consentire^ alle forze, tedesche di spostarsi rapidamente oltre il bacino del Don e il Caucaso settentrionale. Stalin era riluttante a inviare rinforzi da nord fino a quando non fosse stato certo che il fronte meridionale fosse effettivamente la zona principale delle operazioni della campagna. Fino a luglio i comandanti militari sovietici davano per scontato un nuovo attacco contro Mosca: di conseguenza furono costretti a rispondere in maniera affrettata e improvvisata quando fu chiaro che l’obiettivo dei tedeschi era il petrolio.
La maggior priorità della Stavka consisteva nel consolidare di nuovo un fronte a sud. Nel Caucaso fu creata una forte linea di difesa al comando del veterano di cavalleria maresciallo Budenny, che aveva combattuto con Stalin per la difesa di Caricyn nella guerra civile. Quando le truppe di von Kleist raggiunsero questa linea difensiva sulla costa del mar Nero, ai piedi delle montagne caucasiche e sulle vie d’accesso ai giacimenti petroliferi del Caspio, la loro avanzata rallentò, e infine si arrestò. Il 12 luglio fu formato un nuovo fronte a Stalingrado, ai margini della città, sotto il comando del generale Gordov; l’obiettivo era quello di tentare di rallentare l’avanzata tedesca e di creare una netta linea difensiva lungo il fiume Don, usando le armate in ritirata per la sua costituzione. La cosa si dimostrò difficoltosa: parte dei soldati che viaggiavano in piccoli gruppi, tagliati fuori dalle loro unità e dai loro ufficiali, non raggiunsero mai il fronte, ma si smarrirono nelle vaste praterie, facili prede della dilagante aviazione tedesca. I quartier generali da campo dell’esercito avevano un’idea assai vaga del numero di uomini a loro disposizione o, in alcuni casi, addirittura di dove si trovassero le truppe. Stalin tentò di salvare la situazione destituendo i comandanti e sostituendoli con uomini che avevano dimostrato il proprio valore in combattimento. Per quanto ciò si dimostrasse insufficiente ad arginare la marea della ritirata, almeno le forze sovietiche arretrarono con maggiore ordine fino alla linea di difesa posta attorno alla città, dove potevano opporre un’estrema difesa più efficace. Le forze tedesche raggiunsero la periferia della città, e il 23 agosto avevano addirittura già sfondato parte del fronte sovietico raggiungendo il Volga a nord, ma qui la loro avanzata rallentò di fronte alla feroce resistenza dei difensori. La lotta raggiunse, a questo punto, lo stadio critico. Le forze tedesche, incitate da Hitler, si aspettavano di conquistare Stalingrado nel giro di pochi giorni; per loro la città era dotata di un significato particolare che andava ben oltre la sua effettiva importanza strategica o economica. La preoccupazione di Stalin cresceva di giorno in giorno, poiché anche per lui Stalingrado era un simbolo.
Alla fine di agosto Stalin giocò la sua ultima carta. Chiamò al quartier generale del Cremlino il generale Georgij Zukov, l’uomo che l’anno precedente aveva organizzato la disperata difesa di Mosca e arrestato l’assalto tedesco in quell'area nel dicembre 1941. Il 27 agosto Zukov, comandante del fronte occidentale sovietico, fu nominato vicecomandante supremo di Stalin; quella sera arrivò al Cremlino e trovò Stalin e il Comitato di difesa dello stato che discutevano ansiosamente il problema meridionale. Stalin gli offrì tè e panini. Mentre Zukov mangiava, Stalin delineò la situazione: era questione di giorni prima che le forze tedesche si impadronissero di Stalingrado, a meno che si riuscisse a organizzare una difesa adeguata. Lo spiacevole compito di salvare la città venne affidato a Zukov, che trascorse il giorno successivo a Mosca a studiare la dislocazione delle forze sovietiche; poi il 29 agosto volò al quartier generale di Stalingrado per valutare di persona il da farsi 12.
Georgij Kostantinovle Zukov, figlio di un ciabattino di un villaggio a sud di Mosca, aveva fatto una carriera fulminea fino a diventare il vice di Stalin nello sforzo bellico sovietico, a soli 45 anni. Studente brillante, fu collocato come apprendista presso un commerciante di pellicce all'età di undici anni. A diciannove fece il militare di leva nella cavalleria zarista fino a diventare, allo scoppio della rivoluzione nel 1917, sottufficiale Durante la guerra civile si unì all’Armata rossa; anche lui combatté nella difesa di Caricyn, dove fu ferito da una granata durante un feroce combattimento all’arma bianca. Dopo la guerra civile rimase nell’Armata rossa come ufficiale di carriera, nella cavalleria, con un profondo interesse per la teoria militare e le tecniche belliche moderne. Era un comandante capace e popolare, risoluto, organizzato, che prestava grande attenzione ai dettagli e si aspettava il massimo dai suoi uomini. Stalin lo rispettava, il che forse spiega come fosse riuscito a sopravvivere alle grandi purghe dell’esercito alla metà degli anni Trenta. Per Stalin, Zukov era l’epitome della nuova giovane generazione di soldati comunisti, devoti alla causa, ansiosi di spingere l’esercito oltre l’era della cavalleria. Fu osservatore della guerra di Spagna per Stalin nel 1937; nel 1939 il dittatore lo scelse come comandante delle forze sovietiche in un conflitto su larga scala con le truppe giapponesi sul confine mongolo-manciuriano a Khalkin-Gol. Per il suo successo nel mettere in rotta i giapponesi con una vittoria spettacolare Stalin gli attribuì personalmente il titolo di Eroe dell’Unione Sovietica. Era ormai, per Stalin, l’uomo destinato a togliergli le castagne dal fuoco.
Quanti avevano prestato servizio sotto il suo comando lo ricordarono ostinato, dalla parlata volgare, pronto a destituire gli ufficiali che a suo giudizio mancavano della volontà necessaria per vincere e a ordinare brutali punizioni per le truppe che avevano deluso le sue aspettative, in breve uno stalinista in divisa, tuttavia rispettato perché capace di farsi un quadro chiaro delle necessità operative riuscendo a mantenere la calma nelle circostanze più drammatiche. Tutte queste erano qualità necessarie a Stalingrado. Quando Zukov passò in rassegna la situazione gli fu subito chiaro, come lo era ai critici di Hitler nell’esercito tedesco, che la forza attaccante era sparsa su un fronte troppo ampio; in agosto divenne poi evidente che le armate tedesche possedevano ben poche riserve nel meridione, anche se godevano di una superiorità aerea locale e di un maggior numero di carri armati. Inoltre le truppe poste a protezione dei fianchi della forza d’assalto germanica erano quelle degli alleati (italiane, rumene e ungheresi), non altrettanto bene armate e meno votate alla lotta hitleriana all’ultimo sangue contro il marxismo. Zukov capì quasi immediatamente l’opportunità di tagliare i fianchi debolmente difesi del saliente nemico e isolare le forze tedesche a Stalingrado con un gigantesco movimento a tenaglia. Ma prima di tutto era necessario tenere Stalingrado. Agli inizi di settembre fu spostato sul fronte della città un piccolo numero di riserve sovietiche che non riuscirono a spezzare l’accerchiamento tedesco, ma fecero abbastanza per impedire ai tedeschi di impossessarsi di slancio della città. Nei primi giorni di settembre Stalin spronò ansiosamente i comandanti a respingere il nemico a tutti i costi: pur desiderando che fosse Zukov a trovare il modo di salvare la città, dato che egli stesso era stato incapace di farlo, gli era difficile abbandonare l’abitudine a interferire.
Alla fine Stalin consentì a Zukov di prendere l’iniziativa: questa fu una delle decisioni più importanti della lotta per Stalingrado, perché consentì al vicecomandante supremo di sfruttare la propria comprensione delle debolezze tedesche. Il 12 settembre era stato infatti convocato da Stalin al Cremlino; mentre questi ineditava cupamente sulle mappe del fronte, Zukov e il comandante dello Stato maggiore, Aleksandr Vasilevskij, presero a bisbigliare in disparte sulla necessità di trovare un’altra soluzione.
Le orecchie di Stalin si rizzarono: «Quale altra via d’uscita?». Congedati con l’incarico di trovare una strategia per Stalingrado ln un solo giorno, si ripresentarono alle dieci di sera del 13 settembre. Zukov si fece avanti e spiegò pazientemente a Stalin che, potendo mantenere una difesa attiva nella stessa Stalingrado, era possibile ammassare grandi forze di riserva a nord e a sud-est, così da lanciare una controffensiva contro i lunghi fianchi dell’attacco tedesco, tagliando il cordone ombelicale dei rifornimenti e dei rinforzi e accerchiando le forze nemiche. Zukov spiegò che l’attacco avrebbe dovuto essere portato contro le deboli divisioni rumene, e solo quando i preparativi fossero stati portati a termine, più o meno alla metà di novembre. Da principio Stalin si dimostrò scettico, obiettando che la controffensiva era troppo lontana da Stalingrado per dare sollievo alla città. Zukov spiegò che l’attacco doveva avvenire a una certa distanza per impedire che le mobili forze corazzate si limitassero a fare dietrofront e respingere l’attacco. Stalin prese tempo per riflettere, ma alla fine di settembre era ormai convinto: nella massima segretezza venne elaborato un piano, approvato da Stalin in persona. Zukov e lo Stato maggiore lavorarono freneticamente per cinque settimane per organizzare la controffensiva; il 13 novembre Zukov presentò la versione definitiva delLoperàzione «Urano» a un allegro Stalin. «Nel corso della presentazione si fumò con calma la pipa, si lisciò i baffi e non interruppe nemmeno una volta», avrebbe poi rievocato Zukov, «si vedeva che era soddisfatto».
Il successo del contrattacco sovietico dipendeva totalmente dalla capacità di tenere Stalingrado a tutti i costi, con rinforzi assai limitati; ciò richiedeva un sacrificio estremo alle forze sovietiche, che non avrebbero saputo nulla del piano di controffensiva mentre venivano decimate nei combattimenti per le strade. La difesa della città spettava a due armate sovietiche, la 62a e la 64a; i risoluti assalti da parte dei tedeschi costrinsero entrambe le armate a ritirarsi verso il centro della città. Alla fine di agosto il fronte era diviso in due: la 62a armata era arroccata nel cuore di Stalingrado, la 64a, respinta, teneva un piccolo caposaldo sul Volga, a sud-est del campo di battaglia principale. La maggior parte della popolazione civile era ormai stata evacuata sulla sponda orientale del fiume da una flotta di traghetti che faceva la spola, trasportando truppe, fucili e munizioni in una direzione, e i feriti e i profughi nell’altra; la 62a armata poteva resistere solo grazie agli sforzi assidui degli addetti ai rifornimenti militari e degli ingegneri per mantenere in funzione i transiti sul Volga, nonostante i pesanti e ripetuti attacchi aerei e dell’artiglieria. La lunga coda dell’armata - l’artiglieria, l’appoggio aereo e i servizi di retroguardia - si trovava invece tutta dall’altra parte del Volga: da questa posizione meno esposta gli artiglieri e i piloti creavano uno sbarramento incessante contro le forze tedesche in avvicinamento 15.
I combattimenti a Stalingrado erano cosa assai diversa dal tumultuoso sfondamento praticato dalle armate tedesche nella steppa. Poiché la città era stata praticamente distrutta dalla Luftwaffe in agosto, essa rappresentava un terreno di manovra difficile, sul quale i carri armati erano vulnerabili alle imboscate, o semplicemente rimanevano bloccati in mezzo alle macerie. L'avanzata non si misurava più in miglia, ma in metri al giorno. Inoltre la geografia di Stalingrado impediva una conquista rapida improvvisa. La città si estendeva infatti per 40 miglia lungo la sponda del fiume, dalle grandi fabbriche a nord - la fabbrica Ottobre Rosso, la fabbrica delle barricate, la fabbrica dei trattori - dietro alle quali si trovavano ampi isolati di case operaie, attraverso la zona residenziale e commerciale del centro, dominata dalla bassa collina di Mamaev Kurgan, fino alle abitazioni e ai terminali ferroviari a sud: ciascuna area della città divenne un campo di battaglia, ciascun edificio una fortezza da conquistare (carta 8). Lentamente, le forze tedesche si fecero avanti da nord e da ovest, usando le colline circostanti come vantaggiose postazioni di tiro per gli attacchi d’artiglieria contro la città. Il 3 settembre alcune unità si trovavano a sole due miglia dal fiume, incalzando la 62a armata attraverso un dedalo di stretti passaggi tra le fabbriche, intorno alla stazione centrale e ai moli principali, e ancora più oltre verso il restante terreno sopraelevato del centro cittadino. Il comandante della 62a, il generale Aleksandr Lopatin, dubitando che la sua armata, sottoposta a perdite spaventose, potesse tenere la città, iniziò a trasportare alcune unità dall’altra parte del Volga; per questo motivo fu prontamente destituito. Il comandante del fronte di Stalingrado, il generale Andrej Yeremenko, un rude ucraino la cui moglie e il figlio di quattro anni erano rimasti uccisi nell’attacco tedesco dell’anno precedente, fu costretto a trovare un sostituto proprio nel momento di massimo furore della battaglia.
La scelta ricadde su Vasilij Ivanovich Cujkov figlio di un contadino e veterano della guerra civile, che fino a poche settimane prima era stato in Cina come consigliere militare di Chiang kai-shek. Unitosi all'esercito sovietico in ritirata in luglio, si era distinto per aver lanciato attacchi circoscritti contro il nemico per rallentarne l’avanzata. Era stato fortunato a non morire ancor prima di arrivare a Stalingrado: nel raggiungere il fronte il suo autista ubriaco, che viaggiava a velocità sostenuta, aveva provocato un gravissimo incidente, che gli aveva procurato una settimana di ospedale per ferite alla schiena. Poche settimane più tardi, alla fine di luglio, se la cavò ancora una volta fortunosamente quando una missione di ricognizione aerea finì in modo disastroso con il suo aereo costretto a un atterraggio di fortuna: nell’impatto con il terreno l’aereo si spezzò in due e Cujkov fu proiettato fuori, ma se la cavò con un bernoccolo. Per sua stessa ammissione era «sano e audace di natura», un bell’uomo robusto, con una risata rumorosa che metteva in mostra due file di denti davanti interamente ricoperti d’oro. Imparava in fretta in battaglia ed era un maestro dell’improvvisazione e della sorpresa. Non mise mai in discussione il fatto che il suo compito fosse di rimanere a Stalingrado, e di morirci se necessario. Secondo tutte le testimonianze, era un capo di grande carisma, sebbene brutale, certamente dotato di sette vite 16.
Nei due mesi successivi Cujkov combattè un terribile duello con il suo omologo dall’altra parte del fronte, il generale Friedrich Paulus. I due nemici non avrebbero potuto essere più diversi. Ai tempi dell’assedio di Stalingrado Paulus aveva 52 anni ed era un ufficiale di carriera di successo, proveniente da una modesta famiglia borghese di Hesse e figlio di un funzionario di secondo livello. Sebbene sia spesso chiamato «von Paulus», il suo nome era in realtà semplicemente «Paulus», una vera rarità nelle alte sfere dell’esercito tedesco: un borghese che ha fatto carriera? Entusiasta del nuovo metodo di combattimento basato sui carri armati, si conquistò il posto nello Stato maggiore in virtù di notevoli capacità burocratiche; nel 1940 divenne vicecapo di Stato maggiore, ma fu rispedito sul campo nel gennaio 1942 al comando dell'eccellente 6* armata dopo l’improvvisa morte di von Reichenau per un attacco cardiaco. Era un candidato improbabile Por il confronto di Stalingrado: era infatti un uomo tranquillo e pacato, appassionato di Beethoven, alto, quasi ascetico, dominato da una preoccupazione ossessiva per il proprio aspetto personale, ohe si presentava ogni mattina con un colletto immacolato e stivali perfettamente lucidati. Durante l’avvicinamento a Stalingrado u caldo gli procurò stanchezza e fiacchezza; la sua salute peggiorò con attacchi di dissenteria, il «male russo». Man mano che le condizioni nella città peggioravano si fece sempre più depresso pensando al fardello imposto ai suoi sottoposti 17.
Quando Cujkov assunse il comando della 62a armata, Stalingrado era irriconoscibile: «Le case e le strade della città erano morte», scrisse, «sugli alberi non un ramo verde: tutto era stato distrutto dal fuoco. Delle case di legno non era rimasto che un mucchio di cenere e tubi di stufa contorti»18. Solo le strutture in cemento e ferro delle fabbriche, e gli edifici principali in pietra del centro si ergevano sopra il livello del terreno, privi di tetti, i muri interni sbriciolati; ci si contendeva ogni singola rovina finché anch’essa veniva polverizzata. Il primo giorno di comando di Cujkov, il 13 settembre, le forze tedesche si concentrarono per una spallata finale, nel tentativo di ricacciare le truppe sovietiche nel Volga; il giorno successivo presero la stazione ferroviaria centrale e la cima della Mamaev Kurgan. Cujkov fu costretto a spostare il suo quartier generale da una rozza caverna scavata sulla collina a un più sicuro bunker sulle sponde del fiume Carica, nei pressi della confluenza nel Volga; da qui egli diresse le sue forze sempre declinanti alla riconquista di punti chiave, o le guidò a nascondersi in piccoli gruppi in edifici che si trovassero lungo la linea dell’avanzata per combattere fino all’ultimo uomo e all’ultimo proiettile. Il fatto che in molti accettassero di farlo testimonia la natura straordinaria della lotta. Nel corso dei tre giorni successivi la stazione centrale cambiò di mano quindici volte; prima una parte poi l’altra combatterono per conquistare la sommità della Mamaev Kurgan. In grande inferiorità numerica e sotto un continuo bombardamento aereo, la 62a fu lentamente sospinta indietro; il 14 settembre si era ormai al culmine della disperazione. Al quartier generale di Stalin si prese la decisione di inviare gli unici rinforzi disponibili, la 13a divisione della Guardia al comando dell’eroe dell’Unione Sovietica Aleksandr Rodimcev.
Per Stalin gli uomini di Rodimcev avrebbero dovuto interpretare il ruolo avuto dalla «Divisione d’acciaio» a Caricyn un quarto di secolo prima. Era una corsa contro il tempo. Piccoli gruppi di ufficiali del quartier generale di Cujkov furono incaricati di tenere la strada che portava al molo dove ci si aspettava che sbarcassero i rinforzi: con solo quindici carri armati in tutto mantennero la posizione finché le prime diecimila guardie furono traghettate. Queste furono inviate direttamente sul campo di battaglia dopo una marcia forzata snervante; mille di loro non avevano neppure i fucili, e gli altri erano a corto di munizioni. Cujkov li spedì dritti nel cuore della battaglia per la zona centrale della città: non conoscevano il terreno e non avevano esperienza di combattimento urbano, ma riuscirono a resistere all’affondo tedesco e fornirono il tempo necessario per far affluire altre riserve e a Cujkov per riordinare le proprie forze. La divisione subì perdite vicine al 100 per cento e dovette essere ritirata; non prese quasi parte al resto della battaglia, ma gli uomini di Rodimcev entrarono nel mito di Stalingrado.
Nel corso dei giorni successivi la 6a armata conquistò nuovi tratti della zona centrale, compreso l’enorme grande magazzino Univermag sulla piazza Eroi dell’Unione Sovietica, negli scantinati del quale i difensori sovietici combatterono fino all’ultimo; Paulus ne fece poi il suo quartier generale. Più a sud era in corso una dura battaglia intorno a un gigantesco silos per il grano, dove un piccolo distaccamento di soldati sovietici mantenne la posizione per 58 giorni contro i carri armati e il fuoco d’artiglieria. Una spinta finale delle forze tedesche permise loro di aggiudicarsi la base d’attracco centrale sul fiume, ma uno sbarramento di artiglieria e di razzi dall’altra sponda impedì loro di sfruttare il vantaggio. La prima linea sovietica consisteva a questo punto di isolate sacche di resistenza, la cui forza principale era concentrata nell’ampia area industriale a nord della città; alcune unità erano isolate dietro il fronte tedesco e uscivano di notte per attaccare il nemico. Il 25 settembre Paulus volse le sue forze contro le fabbriche. Tre divisioni di fanteria e due corazzate attaccarono su un fronte lungo 3 miglia. Per più di un mese si ripropose il medesimo tema: attacchi tedeschi di giorno, controffensive sovietiche di notte, combattimenti corpo a corpo per ogni singolo stabilimento e ogni singola abitazione. Le forze sovietiche erano schiacciate dalla potenza di fuoco del nemico; una dopo l’altra le grandi fabbriche caddero, finché alla 62a rimase solo l’impianto delle barricate, sulla sponda del fiume.
Perché Paulus non riuscì a prendere la città, che fu tenuta per due mesi da forze costantemente a corto di rifornimenti, sottoposte a perdite debilitanti, pericolosamente in bilico sulla riva sinistra del Volga? Le forze tedesche avevano certamente perso smalto nei combattimenti man mano che si spostavano a oriente; la manutenzione dei carri armati e degli aerei si era fatta difficoltosa e tutte le unità avevano subito perdite elevatissime. Il morale delle forze tedesche subì un tracollo man mano che l'intensità della battaglia saliva: «Stalingrado è inferno» scrisse un sottufficiale tedesco alla madre in settembre, «una Verdun, una Verdun rossa con nuove armi. Attacchiamo tutti i giorni. Se al mattino riusciamo ad avanzare di venti metri, alla sera i russi ci ricacciano indietro»20. Le truppe tedesche furono disorientate dal passaggio da operazioni rapide e su larga scala a un fronte ristretto di combattimenti ravvicinati, dove era difficile fare valere efficacemente la pura e semplice forza dei numeri. Le forze sovietiche non se la passavano meglio, com’è ovvio: è ormai noto che più di 13.000 soldati sovietici furono giustiziati con l’accusa di aver abbandonato il posto di combattimento. La differenza fra i due schieramenti può però essere spiegata dalla maggiore abilità dei comandanti e soldati sovietici nel trarre pieno vantaggio dalle specificità del campo di battaglia urbano.
Sotto il comando di Cujkov l’Armata rossa sviluppò tutta una serie di innovazioni tattiche per tenere a bada il nemico. La maggior parte dei resoconti postbellici dei combattimenti sul fronte orientale non danno un giudizio positivo della tattica sovietica, ma è difficile non arrivare alla conclusione che la tattica abbia giocato un ruolo chiave nella sopravvivenza della 62a armata da agosto a novembre. Cujkov osservò l’approccio bellico tedesco con molta attenzione: notò quanto i tedeschi facessero affidamento su massicci attacchi aerei e d’artiglieria per spingere avanti la fanteria, come pure la riluttanza dei soldati tedeschi a ingaggiare combattimenti ravvicinati senza la protezione dei carri armati. Per ridurre l’impatto della potenza di fuoco tedesca insistette quindi sulla necessità che i due fronti non fossero a una distanza superiore a «un lancio di granata», rendendo così problematico l’attacco dei bombardieri tedeschi, che temevano di colpire i propri compagni. Fece molto più affidamento dei suoi nemici sul combattimento notturno e su quello all’arma bianca, con pugnali e baionette, armi adatte ai rudi siberiani, tartari e kazachi che costituivano la sua armata, ancor più del combattimento basato sull’uso dei carri armati e dell’artiglieria. Le forze sovietiche divennero esperte nell’arte della mimetizzazione e dell’attacco a sorpresa, tenendo continuamente i nemici tedeschi in uno stato di allerta e di timore. Un battaglione di cecchini si trovò pienamente a suo agio in un paesaggio dominato dalle rovine. Nascosti tra le macerie, con fucili a lunga gittata e mirini telescopici, sparavano a tutto quello che si muoveva: «I russi combattono con estremo accanimento», scrisse un altro sottufficiale tedesco nel suo diario, «ci sparano addosso da tutte le parti, da tutti i buchi, non possiamo sollevare la testa»21. Di notte «gruppi d’assalto» specializzati erano soliti attaccare i bunker tedeschi a grande distanza dalle linee sovietiche. Al lancio delle granate e al grido di esultanza delle truppe sovietiche, i soldati tedeschi si svegliavano per trovarsi circondati dal fuoco di armi automatiche. All’alba i gruppi d’assalto svanivano nei loro ricoveri e nelle buche, portando con informazioni aggiornate sulla forza e lo schieramento dei tedeschi. A differenza di molti altri generali sovietici Cujkov insisteva sulla necessità di un’attenta raccolta di informazioni in modo da poter utilizzare le poche forze a sua disposizione nel modo più efficiente.
Man mano che la battaglia proseguiva la 62a armata ricevette un appoggio crescente da parte dell’artiglieria e delle forze aeree. C’erano trecento cannoni, sull’altra sponda del Volga, puntati contro le unità tedesche in avanzata, che furono integrati da un’arma ancor più temuta dai fanti tedeschi, il lanciarazzi multiplo Katjusa. Ideato nel 1940, il lanciarazzi B-13 ricevette il proprio soprannome da una famosa canzone popolare del tempo, Katerina: era in grado di sparare una salva di oltre 4 tonnellate di esplosivo su un’area di 40.000 mq nel giro di 7-10 secondi. La stessa scarsa precisione rappresentava un punto di forza, perché i nemici potevano a mala pena sentire i razzi in arrivo ma non potevano prevedere dove sarebbero caduti. Cujkov usò i lanciarazzi, montati su camion normali, direttamente in prima linea; quando le sue forze vennero respinte fino alla riva del fiume, i camion furono sistemati a cavallo dell’argine, con le ruote posteriori sospese sull’acqua, per poter mantenere la linea di tiro22. Ai proiettili e ai razzi si aggiungevano le bombe: l’8a armata aerea sovietica diede un sempre maggiore appoggio ai difensori di Stalingrado, mentre l’attività aerea tedesca diminuiva lentamente in condizioni metereologiche che determinarono un rapido deterioramento dei mezzi con perdite crescenti. Da parte sovietica si registrarono chiari miglioramenti riguardanti sia gli equipaggiamenti sia la tattica: in novembre c’erano già 1.400 mezzi aerei sul fronte di Stalingrado, per tre quarti moderni aerei da combattimento, compresa una buona quota dei nuovi caccia Yak-9 e La-5, che erano finalmente in grado di contrapporsi efficacemente all’aviazione tedesca. Un programma intensivo di addestramento al volo notturno rese possibile un maggior numero di sortite col favore delle tenebre contro le postazioni tedesche. Il principale limite fino ad allora delle forze aeree sovietiche era dato dalle comunicazioni scadenti, che rendevano difficile il controllo di operazioni aeree o la conduzione accurata degli attacchi; dal settembre del 1942 il comandante delle armate aeree sovietiche, A.A. Novikov iniziò un esperimento di controllo via radio delle forze aeree sul fronte meridionale che rese possibile schierare e guidare i mezzi esattamente come faceva la Luftwaffe. La forza aerea sovietica aveva parecchio da recuperare, ma il distacco tra le due aviazioni iniziò a ridursi nei mesi critici della difesa di Stalingrado.
Un ulteriore vantaggio per i sovietici era rappresentato dallo stesso Cujkov, che continuò a godere di una protezione quasi «magica». In settembre sfuggì per miracolo alla morte quando una bomba colpì direttamente il suo bunker di comando. Il 2 ottobre un attacco aereo distrusse grandi cisterne di petrolio situate proprio sopra il suo nuovo quartier generale nei pressi della riva del fiume e una marea di carburante in fiamme si riversò nel rifugio; in qualche modo lui e il suo Stato maggiore riuscirono a sfuggire all’ondata di fiamme, che si riversò nel Volga e iniziò a scendere seguendo la corrente. Per buona parte delle ultime settimane di battaglia la sua base di comando non si trovò mai a più di qualche centinaio di metri dalle forze tedesche più vicine; da questa postazione egli coordinò le sue truppe scompigliate ed esauste in una serie interminabile di attacchi disperati. Dopo la dura difesa della zona industriale, che portò entrambe le parti allo stallo alla fine di ottobre, Paulus raccolse le sue forze per un attacco finale. Hitler era a Monaco a seguire la cerimonia annuale di commemorazione del fallito putsch nazista del 9 novembre 1923: davanti a una platea di fedeli militanti giurò che sarebbe presto stato «il padrone di Stalingrado». Quello stesso giorno, nelle fredde prime ore del mattino, cinque divisioni di fanteria e due divisioni corazzate, tutte di potenza decisamente ridotta, lanciarono l’ultima offensiva tedesca a Stalingrado: alla fine della mattinata la 62a armata era spaccata in due e le forze tedesche occupavano 500 metri di sponda del Volga, ma negli altri punti l’attacco procedeva assai lentamente. Cujkov organizzò una difesa attiva, ordinando contrattacchi locali e una continua attività di logoramento. Il 12 l’offensiva si stava già affievolendo; pochi giorni dopo i gruppi d’assalto sovietici iniziarono a riconquistare la zona industriale, le falde della Mamaev Kurgan, annerite dal fuoco dell’artiglieria in una città per il resto imbiancata dalla neve, e i grandi edifici del centro che ancora rimanevano in piedi. Ufo novembre Cujkov e il suo Stato maggiore erano riuniti nel bunker per discutere il prosieguo delle operazioni quando ricevettero una telefonata misteriosa dal quartier generale del fronte li avvertiva di tenersi pronti per un ordine speciale. Arrivò a mezzanotte: il giorno successivo le armate schierate sul vicino fronti sud-occidentali avrebbero attaccato e circondato forze tedesche, facendo scattare la trappola che Zukov aveva preparato in settembre.
La controffensiva sovietica funzionò perfettamente: le forze nemiche furono colte completamente di sorpresa, dato che, sebbene i comandanti locali avessero notato da un po’ di tempo movimenti di truppe sovietiche lungo i fianchi tedeschi, gli alti dell'esercito avevano esitato a comunicare la notizia a Hitler nel momento in cui la vittoria a Stalingrado sembrava ormai imminente. Al quartier generale di Hitler si dava per scontato che la battaglia per la città avesse eroso le riserve e che ci fosse ormai ben poco che consentisse un’operazione su vasta scala. Il comandante in capo di Hitler, generale Jodl ammise in seguito che questo era stato un «gravissimo fallimento» dello spionaggio tedesco. Il giorno prima dell’attacco il generale Reinhard Gehlen capo dei servizi segreti militari sul fronte orientale, aveva previsto attacchi limitati, ma senza indicare alcuna data o direzione26. In effetti, con la copertura delle tenebre, delle nuvole e delle nevicate, prestando grande attenzione alla mimetizzazione e alla copertura dei movimenti dei carri armati, lo Stato maggiore sovietico t aveva costituito una forza di più di un milione di uomini, con quasi 14.000 cannoni e mortai pesanti, 979 carri armati (per la maggior parte i versatili e ben armati T 34) e 1.350 mezzi aerei7. Erano raggruppati su tre fronti: i fronti sud-occidentale e del Don a nord delle linee tedesche, e il fronte di Stalingrado a sud e a sud-est. A questi si contrapponevano le truppe rumene e deboli divisioni della riserva tedesca. Alle 7,30 del mattino del 19 novembre il fronte nord diede il via al fuoco di sbarramento dell’artiglieria; due ore dopo le forze rumene furono respinte da un assalto furioso da parte di tre armate sovietiche. Per la prima volta i comandanti sovietici si trovarono di fronte alla possibilità di fare ciò che il nemico sapeva fare così bene: condurre un’operazione ad ampio raggio con forze mobili in campo aperto, sfondando le linee difensive con carri armati e mezzi aerei.
Le forze sovietiche avanzarono velocemente. Il 20 novembre armate meridionali, su un terreno meno difficoltoso, furono scatenate contro altri sventurati rumeni. Nei primi giorni si catturarono molti soldati, armi e rifornimenti: «Situazione disperata fin dalle prime ore del giorno», scrisse uno sfortunato rumeno nel suo diario il 21. «Siamo circondati. Grande confusione... Indossiamo gli abiti migliori, anche due completi di biancheria. Ci aspettiamo di fare una brutta fine»28. Come migliaia di altri si arrese. Nel giro di tre giorni le unità mobili sovietiche raggiunsero il Don a quasi 150 miglia dal loro punto di partenza. La loro avanzata fu così rapida che le sentinelle tedesche di guardia a un ponte di importanza vitale sul Don, nei pressi di Kalac, pensarono che i carri armati in avvicinamento fossero il turno di guardia successivo, arrivato per sostituirli. Quando si resero conto dell’errore era ormai troppo tardi, e le forze corazzate sovietiche erano libere di riversarsi a sud per prendere contatto con le armate che avanzavano in direzione opposta. Il 22 novembre, a Soveckij, a sud-est di Kalac, le due forze si congiunsero e Paulus fu circondato. L’intera area della steppa alle spalle dell’armata tedesca era in una situazione di caos. La piana innevata era coperta dai grotteschi cadaveri congelati di oltre diecimila cavalli, alcuni bloccati in posizione eretta come statue. Quasi tutte le divisioni più deboli lungo il saliente furono eliminate. Le armate sovietiche si aprirono a ventaglio a est e a ovest, creando un corridoio solidamente difeso largo più di 100 miglia che isolava la 6a armata tedesca e parte della? armata Corazzata e respingendo tutto il fronte meridionale dei tedeschi sulle posizioni dell’agosto precedente. La reazione immediata di Paulus era stata di far retrocedere rapidamente le forze tedesche, per sfuggire alla trappola, ma Hitler, che non si rendeva assolutamente conto di quali erano stati i risultati dell’operazione sovietica ed era ossessionato dalla conquista della città, gli ordinò di tener duro e aspettare una forza di soccorso. Nonostante i comandanti di Paulus lo esortassero a sfuggire alla morsa, egli si attenne agli ordini: più o meno 240.000 soldati tedeschi e i loro alleati, con solo un centinaio di carri armati e 1.800 cannoni, si apprestarono a difendere disperatamente un’area brulla lunga 35 miglia e larga 20, il «calderone» di Stalingrado.
Le notizie provenienti dal fronte sovietico giunsero subito dopo gli sbarchi alleati in Africa settentrionale e la sconfitta di Rommel a El Alamein. Hitler, che si era ritirato nella sua ridotta bavarese, il Berghof, si affrettò a tornare al quartier generale invernale di Rastenburg, nella Prussia orientale, dove fece il punto della situazione. Sul principio, secondo un testimone, era «assolutamente indeciso sul da farsi», ma restava, come disse a Mussolini il 20 novembre, «uno di quegli uomini che di fronte alle avversità si fanno semplicemente più determinati». La decisione di resistere e difendere Stalingrado era in parte una dimostrazione di tale determinazione, in parte derivava dalla comprensione di ciò che avrebbe significato per il morale dello sforzo bellico tedesco una ritirata o una resa. Per giustificare l’ordine impartito a Paulus si aggrappò all’esile speranza che gli venne porta dal comandante delle forze aeree, Hermann Goring, il quale il 24 novembre si trovava al quartier generale per discutere della situazione di Stalingrado. Per quanto lo Stato maggiore di Goring dubitasse che la Luftwaffe potesse fare alcunché di rilevante a sud dopo le perdite subite durante l’estate e l’autunno, il loro imprevedibile capo garantì a Hitler che la città assediata poteva essere rifornita per via aerea, fino al momento in cui fosse possibile organizzare una forza di soccorso che si aprisse la strada in quella direzione: promise di consegnare 500 tonnellate di rifornimenti al giorno. Armato delle sue rassicurazioni, quel giorno Hitler ribadì a Paulus la necessità di resistere.
Il ponte aereo si rivelò un disastro: invece delle 500 tonnellate promesse, l’aeronautica fornì meno di 100 tonnellate al giorno, e ancora meno alla fine di dicembre e per tutto gennaio Alla fine dell’ anno le unità della Luftwaffe a oriente erano ridotte ad appena un quarto della loro forza e si trovavano a volare nella morsa dell’inverno russo, a corto di carburante e di tecnici. Le forze tedesche furono confinate in un’area sempre più ristretta del territorio interno alla città e così il numero di aeroporti disponibili diminuì sensibilmente, finché alla metà di gennaio si dovettero lanciare i rifornimenti col paracadute. Aerei aa trasporto lenti e male armati dovevano volare per più di 150 miglia, partendo da campi male attrezzati e affollati, su un territorio controllato dal nemico. Il dominio sui cieli intorno a Stalingrado, appannaggio dei tedeschi fino a ottobre, venne meno. In dicembre cerano meno di 375 caccia tedeschi su tutto il fronte sovietico, e molti erano inservibili. Per rinforzare il declinante numero di piloti abbastanza abili da affrontare la difficile rotta invernale, aerei ed equipaggi furono distaccati ai centri d’addestramento in Germania. Le forze aeree sovietiche organizzarono un blocco aereo efficace intorno alla città, mentre le forze di terra combattevano per conquistare gli aeroporti ancora in mano ai tedeschi. In meno di due mesi la Luftwaffe perse 488 aerei da trasporto e mille uomini d’equipaggio, mentre le forze tedesche nel «calderone» si ritrovarono a corto di cibo, munizioni e medicinali.
Mentre la Luftwaffe andava verso il disastro perseguendo un obiettivo irrealizzabile, hesercito tedesco progettava una drammatica missione di soccorso terrestre. L’ispiratore fu il feldmaresciallo Ericlivon Manstein, il vincitore di Sebastopoli, messo al comando del gruppo di armate del Don, frettolosamente costituito, che comprendeva forze sparpagliate a occidente dall’offensiva sovietica e le riserve tedesche rimanenti. Un piccolo gruppo di divisioni corazzate si raccolse a sud del corridoio sovietico, a Kotelnikovo, sotto il comando del generale Hermann Hoth: Manstein progettava di usare questo gruppo per sfondare le linee sovietiche, congiungersi all’esercito di Paulus muovendo verso sud-est e quindi ritirarsi su una linea difensiva sicura. Il tentativo ebbe inizio, sotto una pioggia torrenziale, il 12 dicembre e andò avanti con buoni risultati nonostante le condizioni avverse. Il 23 dicembre le forze di Hoth erano avanzate di 40 miglia, poi rimasero bloccate in furiosi combattimenti di carri armati contro i rinforzi sovietici prontamente inviati nella zona. Si era giunti al momento critico dell’intera campagna di Stalingrado. Dopo la sorpresa iniziale dell’assalto tedesco, infatti, i comandanti sovietici, in gran fretta e con scarne informazioni sulle intenzioni tedesche, riuscirono a organizzare un forte contrattacco. Sebbene sia Manstein sia Paulus si lamentassero nelle rispettive memorie che si sia persa l’occasione di combattere per una ritirata dignitosa da Stalingrado a causa dell’insistenza di Hitler perché Paulus mantenesse le posizioni, la verità è più complessa.
Quando Zukov e lo Stato maggiore sovietico progettarono di accerchiare Paulus a Stalingrado, si resero conto che le forze tedesche non sarebbero rimaste a guardare ma avrebbero tentato di soccorrerlo: il piano «Urano» prevedeva dunque tale eventualità. Il corridoio che separava Paulus dal resto delle forze tedesche doveva essere abbastanza ampio da rendere il soccorso difficile, e doveva avere una prima linea di difese e riserve tale da far fronte a qualunque affondo tedesco. Nella breccia furono riversate più di sessanta divisioni sovietiche, con quasi “mille carri armati Nonostante le forze di Manstein, pur con un numero minore di carri armati, facessero progressi notevoli tra violente bufere di neve e su un territorio difficile e ben difeso, l’alto comando sovietico potè ridistribuire le proprie riserve sul fianco destro e di fronte alle forze in avanzata. Il 24 dicembre c’era già un notevole rischio che l’intera forza che cercava di avanzare verso Stalingrado finisse anch’essa accerchiata: Manstein fu così costretto a ordinare la ritirata, l’ultimo azzardo nella disfatta. Le forze sovietiche passarono all’attacco su tutto il fronte tedesco meridionale, distruggendo gìi^eserciti italiano e ungherese e le ormai deboli divisioni tedesche^ e avanzarono verso Rostov sul Don. Il risultato fu un grande successo a livello operazionale per i comandanti sovietici. Se per tutto il 1941 e il 1942 l’esercito tedesco aveva approfittato dell’incapacità sovietica di coordinare le proprie forze, di reagire agli avvenimenti, di elaborare un piano ed eseguirlo in maniera coerente, non furono solo gli errori tedeschi a provocare la sconfitta di Hitler a Stalingrado: durante la dura guerra di logoramento del 1942 l’Armata rossa era andata maturando.
Per Paulus la fine era ormai solo questione di tempo. Alla fine di dicembre non c’era alcun modo di soccorrere i suoi soldati: le forze tedesche, quasi 250.000 uomini, costituivano ancora un ostacolo, ma le condizioni in cui si trovavano comportavano un deterioramento della loro capacità e volontà. Su di essi agivano una disperata necessità di viveri, i bombardamenti incessanti, il collasso dei servizi medici per i feriti e i malati e la sinistra, insopportabile consapevolezza di non avere via di scampo. Wilhelm Hoffmann, un fante tedesco arrivato a Stalingrado con la sua unità agli inizi di settembre, scrisse l’ultima annotazione sul diario il 26 dicembre: «Abbiamo già mangiato i cavalli. Sarei pronto a mangiare un gatto, dicono che la sua carne sia buona. I soldati somigliano a morti o a pazzi, cercano qualsiasi cosa da ficcare in bocca. Non tentano più di sfuggire ai proiettili russi, non hanno più la forza di camminare, di curvarsi, di nascondersi». In gennaio le temperature scesero a -30° e le razioni erano ridotte a 60 grammi di pane al giorno, 15 di zucchero e un po’ di carne di cavallo; ogni soldato aveva diritto a una sigaretta. Il carburante e le munizioni scarseggiavano: i cannoni tedeschi che avevano raso al suolo la città sparavano solo sporadicamente. Le truppe scavarono dei rifugi sotterranei e delle trincee e rimasero ad aspettare il peggio.
Stalin e Zukov non si preoccuparono di dare il colpo di grazia al «calderone» finché erano in corso le furibonde battaglie Per la riconquista della steppa del Don. Il servizio segreto informò il comando supremo che nella rete erano rimasti solo 80.000 non tutti militari combattenti. Si diede per scontato che l'armata si sarebbe presto arresa o sarebbe stata eliminata con comodo; così il piano per distruggere la sacca tedesca, operazione «Kolco» in codice, non fu elaborato fino al 27 dicembre. Fu proposto che le armate del fronte del Don, a nord di Stalingrado, attaccassero da occidente a oriente, spingendo le forze tedesche all’interno della città, dividendole in gruppi più piccoli che sarebbero poi stati decimati dai bombardamenti aerei e d’artiglieria, poco per volta. Alcune difficoltà nel portare i rifornimenti e gli uomini in posizione fecero ritardare l’offensiva fino al 10 gennaio, con grande irritazione di Stalin. La forza raccolta attorno al perimetro del «calderone» era un martello dal quale ci si aspettava che schiacciasse la noce: 47 divisioni sovietiche, 5.600 mortai e cannoni pesanti, 169 carri armati e 300 aerei. Due giorni prima che scattasse l’attacco venne data a Paulus la possibilità, di, arrendersi. Una piccola delegazione di soldati si avvicinò alle linee tedesche ma fu accolta a colpi d’arma da fuoco. II giorno successivo, con tanto di trombettiere e bandiera rossa, ci riprovarono; questa volta vennero accompagnati, con gli occhi bendati, alle linee tedesche. Paulus rifiutò però di incontrarli e le condizioni della resa furono respinte senza nemmeno ascoltarle. Il giorno successivo, il 10 gennaio, alle otto del mattino, l’artiglieria sovietica aprì il fuoco di sbarramento più potente dall'inizio della guerra.
Quando le armate sovietiche iniziarono ad avanzare, la decisa resistenza delle forze tedesche le costrinse a progredire assai lentamente: le battaglie furibonde ingaggiate da un nemico considerato ormai in ginocchio causarono perdite sorprendentemente pesanti. Terrorizzati per quanto avrebbe potuto accadere loro se catturati, i soldati tedeschi combatterono infatti con tutta l’energia che riuscirono a raccogliere; era dunque il loro turno di combattere fino all’ultimo uomo e all’ultimo colpo. Pochi giorni dopo i comandanti sovietici seppero perché l’avanzata era così costosa in termini di risorse: si scoprì, da ordini intercettati e dagli interrogatori dei prigionieri, che in novembre erano stati circondati 250.000 uomini, non 80.000 come si credeva, vale a dire un numero superiore a quello delle forze che attaccavano la città, che per di più avevano ordine di non arrendersi, di morire da eroi. E la maggior parte morì, per le ferite, per il freddo, per la fame, a centinaia di miglia dal quartier generale di Hitler, dove il capo di Stato maggiore dell’esercito ordinò con un’ostentata dimostrazione di solidarietà ai suoi subordinati di mangiare «razioni da Stalingrado» mentre la battaglia imperversava38. Le forze sovietiche si aprirono un varco nelle linee di difesa più avanzate, finché, sotto il peso dei cannoneggiamenti e dei bombardamenti, il fronte tedesco, privo ormai di munizioni e armi pesanti, cedette. Il 17 gennaio la sacca occupata aveva una superficie di meno della metà di quella coperta all’inizio dell'operazione «Kolco»; il 22 gennaio iniziò l’ultimo affondo per entrare nella città, dove un terzo delle forze tedesche originarie si era rintanato. Un numero crescente di soldati tedeschi iniziò ad arrendersi in condizioni di assoluta disperazione e di panico totale. Coloro che rimasero nei Bunker vi restarono intrappolati dai pesanti carri armati che passavano sopra le loro teste o stanati dai lanciafiamme e dalle granate. Il 26 gennaio le unità avanzate degli attaccanti si congiunsero finalmente con la 62a armata, che aveva continuato a tenere la sponda occidentale del Volga: un’incudine per il martello sovietico. Alle 9,20 del mattino gli uomini della 13a divisione della Guardia di Rodimcev che stavano attaccando la fabbrica Ottobre Rosso assistettero alle scene di panico tra le unità tedesche che resistevano. Dalla collina a ovest degli impianti scendeva una lunga colonna di carri armati della forza di liberazione sovietica. I soldati delle due armate si abbracciarono tra le lacrime39.
Cinque giorni più tardi il grosso delle forze tedesche superstiti si arrese. Paulus fu trovato da un piccolo distaccamento di truppe sovietiche sotto il comando del tenente Fèdor Jelcenko nel suo quartier generale nei sotterranei del grande magazzino Univermag, con centinaia di soldati tedeschi terrorizzati che si accalcavano nell’aria fetida degli scantinati sovraffollati. Depresso, quasi distaccato dal sinistro ambiente che lo circondava, Paulus rifiutò di incontrare faccia a faccia coloro che lo avevano catturato. I suoi aiutanti accettarono la resa e chiesero un automobile per allontanare il loro capo evitandone il linciaggio. Paulus e 23 generali tedeschi furono fatti prigionieri, e Paulus finì per rinnegare gli errori del passato. Finì i suoi giorni a Dresda, nella Germania comunista, dove morì nel 1957. A nord della città le forze tedesche rifiutarono di accettare la resa e continuarono a combattere fino al 2 febbraio, quando non ebbero più alcun mezzo per farlo. La battaglia di Stalingrado era finalmente giunta al termine.
Non c’era dubbio che l’Armata rossa avesse riportato una vittoria importante. A Mosca il giornalista Alexander Werth notò un cambiamento psicologico notevole nella popolazione nella quale non si ravvisava più una disperazione sinistra e carica d’ansia, ma una nuova fiducia nelle proprie capacità: «Nessuno dubito che quella non fosse la svolta della guerra», avrebbe poi scritto Werth. L'aura di invincibilità della Germania svanì: le perdite tedesche erano catastrofiche? Nelle battaglie combattute da novembre a quel momento erano state annientate 32 divisioni di truppe tedesche, rumene, ungheresi e italiane e altre 16 erano state ridotte a poca cosa Dodicimila tra cannoni e mortai erano stati distrutti o erano caduti in mano ai sovietici; secondo le fonti sovietiche, lo stesso destino era toccato a 3.500 carri armati e 3.000 aerei42. La stampa sovietica non faceva che citare Canne, l’antica battaglia nella quale i cartaginesi di Annibale avevano messo in rotta i romani. Agli inizi di febbraio Werth fu invitato, insieme ad altri giornalisti occidentali, a visitare la scena del trionfo sovietico. Mentre si avvicinavano a Stalingrado furono circondati da una fiumana apparentemente senza fine di uomini, camion, cavalli, persino cammelli, che si muovevano disordinatamente verso occidente per affrontare altre battaglie. La temperatura era di -44°. A Stalingrado il campo di battaglia era un quadro congelato dei combattimenti: cadaveri di uomini e cavalli immobili dove erano caduti, carri armati e camion bruciati, i resti di una lotta crudele. Negli scantinati della Casa dell’Armata rossa, a Werth furono mostrati duecento tedeschi emaciati e divorati dalle malattie, la pelle xxxxxx e ingiallita, che rosicchiavano le ossa dell’ultimo cavallo mentre attendevano, indossando cappotti consunti e stracci al posto degli stivali, di essere portati ai campi di prigionia. «Dalle parti della Casa dell’Armata rossa, a Stalingrado», avrebbe poi pensato Werth, «sembrava esserci una rozza ma divina giustizia».
La caduta della città ebbe risonanza mondiale. Un anno prima, un fascio di mappe inviato da Londra a Mosca, utilmente etichettato «Seguire la GUERRA su questa mappa del MONDO in proiezione Mercatore», non indicava neppure la posizione di Stalingrado; ora questo nome era sulle labbra di tutti. II 20 febbraio le città britanniche celebrarono la Giornata di Stalingrado, a venticinque giorni (in realtà a diciassette) di distanza. Il giorno successivo la Royal Albert Hall ospitò una scintillante parata della crema della società inglese, ansiosa di rendere omaggio al valore dell’Armata rossa. Tre settimane dopo la conquista di Stalingrado, Stalin inviò a Churchill i filmati relativi alla battaglia che Churchill, immobilizzato da una polmonite, guardò grazie a un proiettore privato installato nella sua camera da letto45. Gli effetti sugli alleati di Hitler, che si trovarono a condividerne la sconfitta, non furono meno devastanti, poiché le sofferenze inferte alle forze rumene, italiane e ungheresi fecero di questi popoli degli alleati riluttanti: era ormai certo, disse il ministro degli Esteri italiano a Mussolini 1’8 febbraio, che sarebbero venute ore dure.
Hitler, come al solito, incolpò tutti tranne se stesso della catastrofe. Quando gli fu comunicata la resa di Paulus poté a stento trattenere la rabbia; il giorno prima lo aveva promosso feldmaresciallo. Per quanto si fosse cullato fino alla fine nell’illusione che si potesse salvare la 6a armata in primavera, si aspettava che Paulus combattesse fino all’ultimo se l’operazione di salvataggio si fosse dimostrata irrealizzabile, e che tenesse l’ultimo proiettile per se stesso. Divenne ossessionato dall’idea che l’eroico sacrificio di così tanti soldati tedeschi fosse stato infangato dalla debolezza di «un unico individuo debole e privo di carattere»47. Rifiutò di sentire nominare Goring per settimane, poiché questi non aveva saputo mantenere il ponte aereo. I suoi aiutanti lo videro invecchiare visibilmente nel periodo della crisi, in preda a disturbi gastrici che gli causavano un alito insopportabile, al cattivo umore e alla depressione. 11 suo modo di affrontare il contraccolpo psicologico fu di fingere che Stalingrado non ci fosse mai stata: si rifiutò di menzionarla e si immerse in un mare di insensato lavoro sui piani di vittoria per il 1943 48. Ma non era possibile nascondere il disastro all’opinione pubblica tedesca: troppi erano stati i morti e i prigionieri per far finta che Stalingrado non fosse mai esistita.
C’è sempre stata la tentazione di vedere in Stalingrado là svolta della seconda guerra mondiale: il feldmaresciallo Keitel capo di Stato maggiore di Hitler, confessò in seguito che era stato questo il momento in cui la Germania aveva «giocato la sua ultima carta e perso». Ma di per sé non rappresentò una vittoria decisiva. Dimostrò il notevole miglioramento delle capacità operative e di combattimento dei soldati sovietici e delle armi a loro disposizione. Le dimensioni enormi della carneficina su entrambi i fronti, il combattimento fino allo stremo per una città che non esisteva più indicavano il carattere particolare della lotta selvaggia fra invasore e vittima. La vittoria ebbe un impatto morale e psicologico che andava ben al di là della sua importanza strategica, ponendo le basi della fiducia dei sovietici nelle proprie capacità per le battaglie del 1943, queste sì decisive.
La città fu salvata, secondo la leggenda sovietica, dall'iniziativa di un solo uomo, il presidente locale del comitato militare, Iosif V. Dzugasvili, che nel 1913 aveva adottato il soprannome Stalin, vale a dire «acciaio». Spingendo i compagni a combattere fino alla morte piuttosto che abbandonare la città, disobbedì agli ordini di Mosca richiamando una divisione dell’Armata rossa dal Caucaso; la «divisione d’acciaio» di Zloba, dopo una marcia forzata di trecento miglia, si lanciò sulle retrovie dell’esercito cosacco e capovolse le sorti della battaglia. Un mese più tardi Stalin fu promosso al Consiglio della difesa nazionale a Mosca. Un anno dopo era di nuovo sul fronte meridionale al comando di una campagna che andava da Kursk, un centro della steppa, attraverso Caricyn, giù fino al Caucaso. Ancora una volta Stalin si dimostrò indispensabile nel salvare la regione dalle armate controrivoluzionarie. Per i suoi successi sul Volga, Caricyn divenne la sua città: Stalingrado.
Ventiquattro anni più tardi, per uno strano scherzo della storia, Stalin si trovò ancora una volta a difendere la città, in circostanze assai più critiche; nell'autunno del 1942 le forze tedesche raggiunsero infatti il punto più avanzato della loro invasione, i passi innevati delle montagne del Caucaso e le rive del Volga sui due lati di Stalingrado. Nei decenni tra questi due assedi la città era cambiata fino ad essere irriconoscibile; era diventata un centro industriale di primaria importanza che si estendeva disordinatamente lungo il fiume per una lunghezza di 40 miglia. Il suo mezzo milione di abitanti lavorava soprattutto nelle nuove fabbriche dove si producevano grandi quantità di trattori per sostenere la rivoluzione agricola del regime e, negli ultimi tempi, un gran numero di carri armati. La città era uno snodo vitale per il commercio sovietico: i prodotti industriali e i macchinari venivano dal nord; un flusso costante di grano e petrolio arrivava dalla direzione opposta. Anche Stalin era cambiato: era ormai la principale autorità dello stato sovietico nonché comandante supremo delle forze armate, e aveva molto più potere che nel 1918, e armate a disposizione ben più grandi. Su di lui solo pesava ancora una volta la responsabilità di salvare la città e il sistema sovietico sotto assedio. Il 28 luglio 1942 emanò un duro ordine per le truppe che tentavano disperatamente di fermare l’avanzata tedesca: «Non arretrare di un passo!». Per quattro mesi rimasero aggrappate allo stesso territorio a ferro di cavallo, mentre Stalin riviveva gli incubi della guerra civile.
Poi, un po’ alla volta, l’ago della bilancia si spostò: ancora una volta le armate sovietiche si lanciarono sulle retrovie dell’esercito nemico infliggendogli la prima pesante sconfitta della guerra. Nei dodici mesi successivi l’Armata rossa spinse le forze tedesche fuori da gran parte della Russia occidentale, su un ampio fronte che andava da Kursk al Caucaso; queste vittorie sovietiche segnarono il punto di svolta dell’intero conflitto, come il successo del 1919 aveva capovolto le sorti della guerra civile. Nel dicembre 1942 Stalin promosse 360 ufficiali al rango di generale per aver salvato la città che portava il suo nome. Nel marzo 1943 attribuì a se stesso il primo titolo militare formale, maresciallo dell’Unione Sovietica.2
Quando le forze tedesche rinnovarono l’assalto agli inizi dell’estate del 1942, Stalingrado non era tra le priorità più immediate di Hitler, il suo unico pensiero essendo quello di ottenere una vittoria decisiva, che annullasse l’Armata rossa e distruggesse il nemico bolscevico definitivamente; una volta sistemato il fronte orientale, le risorse tedesche potevano poi essere indirizzate alla sconfitta degli Alleati a occidente. Il problema era trovare il luogo dove assestare il colpo. I capi militari tedeschi preferivano un attacco al centro del fronte per impadronirsi della capitale, Mosca, nella quale era concentrato il grosso dell’esercito sovietico^a " caduta della città avrebbe avuto effetti devastanti sul morale del paese. Hitler la pensava diversamente: se la conquista dell’Unione -Sovietica nasceva da un’ispirazione ideologica, era però motivata dalla bramosia di beni materiali. Hitler voleva le industrie, il petrolio e il grano della Russia meridionale, dove si trovava il vero e proprio Lebensraum, lo spazio vitale. Riteneva che se la Germania si fosse assicurata queste risorse, lo sforzo bellico sovietico sarebbe stato bloccato, mentre il Terzo Reich sarebbe divenuto
praticamente invincibile. Il 5 aprile emise la direttiva per la nuova campagna estiva: un attacco generalizzato a meridione contro là Crimea, le steppe del Don e il Caucaso3.
Le forze sovietiche furono colte con la guardia abbassata, come era già successo l’estate precedente Stalin si era aspettato la strategia proposta dai consiglieri di Hitler, che cioè venisse rinnovato l’assalto a Mosca e Leningrado con l’obiettivo di circondare e sconfiggere il grosso dell’Armata rossa. Quando un piccolo aereo tedesco si schiantò dietro le linee sovietiche in giugno con tutti i dettagli dell’attacco programmato sul fronte meridionale lo considerò un rozzo tentativo di far passare informazioni fuorviami. Anche dopo che gli inglesi ebbero inviato informazioni sullo schieramento tedesco raccolte decifrando i segnali radio del nemico, Stalin non si fidò delle argomentazioni britanniche più di quanto si fosse fidato degli avvertimenti relativi al piano «Barbarossa» nel 1941 4. Il 28 giugno le forze tedesche iniziarono la campagna meridionale, l’operazione «Blu», contro la parte più debole dell’intero fronte sovietico, che fu colto assolutamente di sorpresa.
p II risultato fu quasi una ripetizione di quello che era accaduto estate precedente. Le forze tedesche si aprirono una via usando una combinazione di grandi concentrazioni di carri armati e un imponente dispiegamento di forze aeree. Nel giro di poche settimane l’Armata rossa fu respinta da tutta la zona a sud di Charkov e la Crimea fu conquistata. Numerosi soldati sovietici vennero fatti prigionieri o si ritirarono disordinatamente a oriente. Sebastopoli, un porto sul mar Nero, resistette contro un soverchiarne attacco aereo e d’artiglieria finché non si arrese, il 4 luglio, al generale Erich von Manstein, il cui premio fu la promozione a feldmaresciallo. Il crollo della resistenza sovietica minacciava di trasformarsi in una disfatta: Rostov sul Don, a oriente della Crimea, cadde senza opporre molta resistenza il 23 luglio. Hitler era ormai acquartierato in Ucraina, poco più a nord della città di Vinnica; la base estiva, chiamata in codice «Lupo mannaro», consisteva di un piccolo gruppo di capanne di legno nascoste nei boschi. Fu qui che Hitler, a disagio per l’intenso caldo afoso, in preda a crisi di insonnia e di pressione alta, ricevette le prime notizie del notevole progresso delle forze tedesche. Nonostante il clima, il suo umore migliorò: la vittoria che gli era sfuggita nel 1941 era più vicina, il nemico «assai più debole» dell’anno precedente.
Impaziente di arrivare alla prova di forza finale, negli ultimi giorni di luglio Hitler decise di accelerare la campagna sul fronte meridionale. Divise le proprie armate in due gruppi distinti, A e B. Il primo gruppo di armate ricevette l’incarico di spingersi oltre il Don all'inseguimento delle forze sovietiche in ritirata e di conquistare l’intera costa del mar Nero e la regione caucasica fino alle città petrolifere di Majkop, Baku e Grozny; questa vasta area avrebbe dovuto essere conquistata in poche settimane dalla la armata corazzata, agli ordini del feldmaresciallo von Kleist. Il secondo gruppo, la 6a armata e la 4a armata corazzata, sotto il comando del generale Paulus, ebbe ordine di avanzare verso Stalingrado, distruggere le forze sovietiche sul Volga e procedere rapidamente verso la foce del fiume fino all’Astrakan, tagliando le comunicazioni tra nord e sud. Stalingrado divenne per la prima volta un obiettivo di importanza primaria: una sua «rapida distruzione» era per Hitler «di particolare importanza».
In quasi tutti i resoconti postbellici della sconfitta tedesca in Unione Sovietica, questa decisione di dividere le forze tedesche per il conseguimento di lontani obiettivi economici alla fine dell’estate 1942 viene considerato l’errore fatale da parte di Hitler, ma è facile capire perché egli fosse tentato da questa mossa. Le forze tedesche avevano conquistato ampie porzioni di territorio in giugno e luglio, mentre quelle sovietiche erano chiaramente allo sbando. In Africa settentrionale Rommel stava respingendo le forze britanniche in Egitto. Un rapido colpo nel Caucaso apriva alla Germania la prospettiva di un controllo totale sul Medio Oriente; una veloce vittoria a Stalingrado apriva la possibilità di una rapida avanzata anche in direzione opposta, in un’ampia manovra di aggiramento a nord-est, alle spalle di Mosca. Hitler a quanto pare non si rendeva conto dell’entità dell’azzardo nell’estate del 1942, ma continuava a credere che la sua strategia improvvisata gli avrebbe consentito di raggiungere risultati maggiori di quanto gli sarebbe stato possibile seguendo i più miti consigli dei professionisti.
Il suo Stato maggiore vedeva le cose in maniera assai più ragionevole, ritenendo poco sensato inviare le proprie unità a occupare semplicemente la steppa deserta contro un nemico che per il momento aveva impegnato solo una frazione delle sue forze nel conflitto meridionale. Il 23 luglio, il giorno in cui Hitler inviò la direttiva per la nuova offensiva, il capo di Stato maggiore, il generale Franz Halder si rammaricò nel proprio diario che l’erronea valutazione del nemico da parte di Hitler fosse «risibile e pericolosa allo stesso tempo»7. Le facili vittorie dell’estate erano state ottenute contro forze deboli, che avevano evitato la disfatta ritirandosi attraversi i vasti spazi della Russia centrale. Quanto più le forze tedesche avanzavano sul fronte meridionale, tanto più si disperdevano. Si sviluppò un lungo fianco vulnerabile lungo l’intera ala settentrionale dell’offensiva, difeso soprattutto dagli alleati della Germania: l’Ungheria, la Romania e l’Italia. I treni con i rifornimenti dovevano seguire le truppe con il carburante e le munizioni su lunghi e pericolosi tragitti, mentre le misere strade e ferrovie erano costantemente sotto il tiro dei partigiani sovietici. Hitler non volle sentire obiezioni: rimproverò i suoi comandanti per la loro esitazione, accusandoli persino di disfattismo, e diede il benservito a quanti non erano d’accordo. Gli eventi diedero inizialmente ragione al suo ottimismo: la prima armata corazzata si lanciò sulla pianura settentrionale del Caucaso, avanzando rapidamente attraverso le ricche distese di grano e i frutteti rigogliosi; nel giro di dodici giorni era avanzata di 350 miglia fino ai piedi delle montagne del Caucaso. Qui le forze alpine tedesche e italiane, addestrate alla guerra in montagna, iniziarono la lenta ascesa ai passi montani. Nel frattempo le armate di Paulus si spostavano con decisione a oriente, ripulendo la steppa del Don dalle truppe sovietiche, costringendole ad arretrare fino alle vie d’accesso a Stalingrado. Il 19 agosto ebbe inizio il primo assalto alla città, il 23 i soldati tedeschi avevano raggiunto i sobborghi. «Il morale era altissimo», come ricordava un testimone diretto al quartier generale «Lupo mannaro».
Alla prima serie di vittorie tedesche la società sovietica fu colta dal panico. Le popolazioni del meridione iniziarono a spostarsi verso oriente in una fuga precipitosa da un nemico che avevano iniziato a credere inarrestabile. A Rostov sul Don persino le truppe furono contagiate dal timore di cosa sarebbe accaduto loro se fossero state catturate dai tedeschi. Nel momento più drammatico della crisi di demoralizzazione arrivò lo storico ordine «n. 227» da Stalin in persona: l’Armata rossa doveva opporre resistenza senza cedere terreno all'invasore oppure tutti i suoi uomini sarebbero tutti stati considerati criminali e disertori. La Nkvd, la tristemente nota polizia politica sovietica, fece una retata di tutti coloro che erano considerati disfattisti e sabotatori, mentre la propaganda nazionale chiamava il popolo sovietico allo sforzo decisivo fino al martirio per la Madre Russia. Il panico svanì, rimpiazzatola uno sfato a animo di cupa determinazione. Il pubblico moscovita affollava i concerti patriottici di Cajkovskij? Si invocarono grandi eroi del passato, privi di coloriture socialiste, per ispirare una resistenza eroica e l’odio per il nemico. Il giornalista Alexander Werth, che visse a Mosca per tutto il periodo più buio della guerra, ricordava che l'odio raggiunse «un parossismo frenetico» durante le difficili settimane di luglio e agosto. La poesia di Aleksej Surkov lo odio fai pubblicata nel giornale dell’esercito «Stella Rossa» il 12 agosto:
Il mio cuore è duro come pietra.
Li odio profondamente.
La mia casa fu insozzata dai prussiani,
quelle risate ebbre mi offuscano la mente. E con queste mie mani,
no per uno voglio strozzarli!
Poche settimane prima la «Pravda» aveva pubblicato un editoriale su L’odio per il nemico: «Possa il sacro odio divenire il nostro principale, unico sentimento»9.
Non fu solo il timore dell’NKVD a indurre il popolo sovietico a continuare a combattere nel 1942, ma un’ampia e spontanea rinascita del patriottismo e un’ondata di repulsione per la brutalità dei tedeschi. La rinascita fu deliberatamente alimentata dal regime: si riaprirono le chiese e si incoraggiò la frequentazione delle funzioni dopo anni di persecuzioni. La «Pravda» iniziò, cosa senza precedenti, a scrivere in maiuscolo la parola «Dio»10. Stalin si dedicò a costruire legami tra l'Armata rossa e le tradizioni del passato imperiale? Nel 1942 furono create nuove medaglie per atti di eroismo che portavano i nomi dei grandi generali zaristi: Kutuzov, Suvorov, Nachimov. In modo ancor meno ortodosso, sì introdusse una medaglia riservata ai soli ufficiali, l’Ording Aleksandr Nevskij, un’onorificenza dei tempi zaristi; e nel pieno della battaglia di Stalingrado fu annunciato che gli ufficiali avrebbero ancora una volta indossato mostrine che li distinguessero e spalline d’oro per instillare un senso d’orgoglio e disciplina in un esercito che fino a quel momento non aveva conosciuto distinzioni di classe.
Le medaglie e le mostrine non sarebbero bastate a sconfiggere l’esercito tedesco, ma erano le manifestazioni esteriori di uno sforzo più fondamentale messo in opera dal comando supremo sovietico (Stavka) per ridare all’Armata rossa fiducia in sé e i mezzi per una resistenza efficace. Nonostante il rapido successo delle forze tedesche al sud, il bilancio globale tra i due schiera-menti era più equilibrato di quanto suggerisse la situazione sul fronte meridionale. All’inizio della campagna estiva le forze sovietiche disponevano di cinque milioni e mezzo di uomini, contro i sei milioni delle armate tedesche e dei loro alleati. Entrambi gli schieramenti possedevano grosso modo lo stesso numero di mezzi aerei, poco più di 3.000; l’esercito sovietico disponeva di 4.000 carri armati, quello tedesco di 3.200. Lungo tutta l’area della Russia settentrionale e centrale i due schieramenti avevano eretto un’enorme barricata difensiva, ed era qui che erano concentrate le forze sovietiche, a protezione di Mosca e della zona centrale della Russia. Solo a sud erano in notevole svantaggio: a luglio i 187.000 soldati sovietici qui dislocati, con 360 carri armati e 330 aerei, si trovarono infatti ad affrontare una forza di 250.000 uomini, 740 carri armati e 1,200 aerei 11. Fu questa temporanea disparità a consentire^ alle forze, tedesche di spostarsi rapidamente oltre il bacino del Don e il Caucaso settentrionale. Stalin era riluttante a inviare rinforzi da nord fino a quando non fosse stato certo che il fronte meridionale fosse effettivamente la zona principale delle operazioni della campagna. Fino a luglio i comandanti militari sovietici davano per scontato un nuovo attacco contro Mosca: di conseguenza furono costretti a rispondere in maniera affrettata e improvvisata quando fu chiaro che l’obiettivo dei tedeschi era il petrolio.
La maggior priorità della Stavka consisteva nel consolidare di nuovo un fronte a sud. Nel Caucaso fu creata una forte linea di difesa al comando del veterano di cavalleria maresciallo Budenny, che aveva combattuto con Stalin per la difesa di Caricyn nella guerra civile. Quando le truppe di von Kleist raggiunsero questa linea difensiva sulla costa del mar Nero, ai piedi delle montagne caucasiche e sulle vie d’accesso ai giacimenti petroliferi del Caspio, la loro avanzata rallentò, e infine si arrestò. Il 12 luglio fu formato un nuovo fronte a Stalingrado, ai margini della città, sotto il comando del generale Gordov; l’obiettivo era quello di tentare di rallentare l’avanzata tedesca e di creare una netta linea difensiva lungo il fiume Don, usando le armate in ritirata per la sua costituzione. La cosa si dimostrò difficoltosa: parte dei soldati che viaggiavano in piccoli gruppi, tagliati fuori dalle loro unità e dai loro ufficiali, non raggiunsero mai il fronte, ma si smarrirono nelle vaste praterie, facili prede della dilagante aviazione tedesca. I quartier generali da campo dell’esercito avevano un’idea assai vaga del numero di uomini a loro disposizione o, in alcuni casi, addirittura di dove si trovassero le truppe. Stalin tentò di salvare la situazione destituendo i comandanti e sostituendoli con uomini che avevano dimostrato il proprio valore in combattimento. Per quanto ciò si dimostrasse insufficiente ad arginare la marea della ritirata, almeno le forze sovietiche arretrarono con maggiore ordine fino alla linea di difesa posta attorno alla città, dove potevano opporre un’estrema difesa più efficace. Le forze tedesche raggiunsero la periferia della città, e il 23 agosto avevano addirittura già sfondato parte del fronte sovietico raggiungendo il Volga a nord, ma qui la loro avanzata rallentò di fronte alla feroce resistenza dei difensori. La lotta raggiunse, a questo punto, lo stadio critico. Le forze tedesche, incitate da Hitler, si aspettavano di conquistare Stalingrado nel giro di pochi giorni; per loro la città era dotata di un significato particolare che andava ben oltre la sua effettiva importanza strategica o economica. La preoccupazione di Stalin cresceva di giorno in giorno, poiché anche per lui Stalingrado era un simbolo.
Alla fine di agosto Stalin giocò la sua ultima carta. Chiamò al quartier generale del Cremlino il generale Georgij Zukov, l’uomo che l’anno precedente aveva organizzato la disperata difesa di Mosca e arrestato l’assalto tedesco in quell'area nel dicembre 1941. Il 27 agosto Zukov, comandante del fronte occidentale sovietico, fu nominato vicecomandante supremo di Stalin; quella sera arrivò al Cremlino e trovò Stalin e il Comitato di difesa dello stato che discutevano ansiosamente il problema meridionale. Stalin gli offrì tè e panini. Mentre Zukov mangiava, Stalin delineò la situazione: era questione di giorni prima che le forze tedesche si impadronissero di Stalingrado, a meno che si riuscisse a organizzare una difesa adeguata. Lo spiacevole compito di salvare la città venne affidato a Zukov, che trascorse il giorno successivo a Mosca a studiare la dislocazione delle forze sovietiche; poi il 29 agosto volò al quartier generale di Stalingrado per valutare di persona il da farsi 12.
Georgij Kostantinovle Zukov, figlio di un ciabattino di un villaggio a sud di Mosca, aveva fatto una carriera fulminea fino a diventare il vice di Stalin nello sforzo bellico sovietico, a soli 45 anni. Studente brillante, fu collocato come apprendista presso un commerciante di pellicce all'età di undici anni. A diciannove fece il militare di leva nella cavalleria zarista fino a diventare, allo scoppio della rivoluzione nel 1917, sottufficiale Durante la guerra civile si unì all’Armata rossa; anche lui combatté nella difesa di Caricyn, dove fu ferito da una granata durante un feroce combattimento all’arma bianca. Dopo la guerra civile rimase nell’Armata rossa come ufficiale di carriera, nella cavalleria, con un profondo interesse per la teoria militare e le tecniche belliche moderne. Era un comandante capace e popolare, risoluto, organizzato, che prestava grande attenzione ai dettagli e si aspettava il massimo dai suoi uomini. Stalin lo rispettava, il che forse spiega come fosse riuscito a sopravvivere alle grandi purghe dell’esercito alla metà degli anni Trenta. Per Stalin, Zukov era l’epitome della nuova giovane generazione di soldati comunisti, devoti alla causa, ansiosi di spingere l’esercito oltre l’era della cavalleria. Fu osservatore della guerra di Spagna per Stalin nel 1937; nel 1939 il dittatore lo scelse come comandante delle forze sovietiche in un conflitto su larga scala con le truppe giapponesi sul confine mongolo-manciuriano a Khalkin-Gol. Per il suo successo nel mettere in rotta i giapponesi con una vittoria spettacolare Stalin gli attribuì personalmente il titolo di Eroe dell’Unione Sovietica. Era ormai, per Stalin, l’uomo destinato a togliergli le castagne dal fuoco.
Quanti avevano prestato servizio sotto il suo comando lo ricordarono ostinato, dalla parlata volgare, pronto a destituire gli ufficiali che a suo giudizio mancavano della volontà necessaria per vincere e a ordinare brutali punizioni per le truppe che avevano deluso le sue aspettative, in breve uno stalinista in divisa, tuttavia rispettato perché capace di farsi un quadro chiaro delle necessità operative riuscendo a mantenere la calma nelle circostanze più drammatiche. Tutte queste erano qualità necessarie a Stalingrado. Quando Zukov passò in rassegna la situazione gli fu subito chiaro, come lo era ai critici di Hitler nell’esercito tedesco, che la forza attaccante era sparsa su un fronte troppo ampio; in agosto divenne poi evidente che le armate tedesche possedevano ben poche riserve nel meridione, anche se godevano di una superiorità aerea locale e di un maggior numero di carri armati. Inoltre le truppe poste a protezione dei fianchi della forza d’assalto germanica erano quelle degli alleati (italiane, rumene e ungheresi), non altrettanto bene armate e meno votate alla lotta hitleriana all’ultimo sangue contro il marxismo. Zukov capì quasi immediatamente l’opportunità di tagliare i fianchi debolmente difesi del saliente nemico e isolare le forze tedesche a Stalingrado con un gigantesco movimento a tenaglia. Ma prima di tutto era necessario tenere Stalingrado. Agli inizi di settembre fu spostato sul fronte della città un piccolo numero di riserve sovietiche che non riuscirono a spezzare l’accerchiamento tedesco, ma fecero abbastanza per impedire ai tedeschi di impossessarsi di slancio della città. Nei primi giorni di settembre Stalin spronò ansiosamente i comandanti a respingere il nemico a tutti i costi: pur desiderando che fosse Zukov a trovare il modo di salvare la città, dato che egli stesso era stato incapace di farlo, gli era difficile abbandonare l’abitudine a interferire.
Alla fine Stalin consentì a Zukov di prendere l’iniziativa: questa fu una delle decisioni più importanti della lotta per Stalingrado, perché consentì al vicecomandante supremo di sfruttare la propria comprensione delle debolezze tedesche. Il 12 settembre era stato infatti convocato da Stalin al Cremlino; mentre questi ineditava cupamente sulle mappe del fronte, Zukov e il comandante dello Stato maggiore, Aleksandr Vasilevskij, presero a bisbigliare in disparte sulla necessità di trovare un’altra soluzione.
Le orecchie di Stalin si rizzarono: «Quale altra via d’uscita?». Congedati con l’incarico di trovare una strategia per Stalingrado ln un solo giorno, si ripresentarono alle dieci di sera del 13 settembre. Zukov si fece avanti e spiegò pazientemente a Stalin che, potendo mantenere una difesa attiva nella stessa Stalingrado, era possibile ammassare grandi forze di riserva a nord e a sud-est, così da lanciare una controffensiva contro i lunghi fianchi dell’attacco tedesco, tagliando il cordone ombelicale dei rifornimenti e dei rinforzi e accerchiando le forze nemiche. Zukov spiegò che l’attacco avrebbe dovuto essere portato contro le deboli divisioni rumene, e solo quando i preparativi fossero stati portati a termine, più o meno alla metà di novembre. Da principio Stalin si dimostrò scettico, obiettando che la controffensiva era troppo lontana da Stalingrado per dare sollievo alla città. Zukov spiegò che l’attacco doveva avvenire a una certa distanza per impedire che le mobili forze corazzate si limitassero a fare dietrofront e respingere l’attacco. Stalin prese tempo per riflettere, ma alla fine di settembre era ormai convinto: nella massima segretezza venne elaborato un piano, approvato da Stalin in persona. Zukov e lo Stato maggiore lavorarono freneticamente per cinque settimane per organizzare la controffensiva; il 13 novembre Zukov presentò la versione definitiva delLoperàzione «Urano» a un allegro Stalin. «Nel corso della presentazione si fumò con calma la pipa, si lisciò i baffi e non interruppe nemmeno una volta», avrebbe poi rievocato Zukov, «si vedeva che era soddisfatto».
Il successo del contrattacco sovietico dipendeva totalmente dalla capacità di tenere Stalingrado a tutti i costi, con rinforzi assai limitati; ciò richiedeva un sacrificio estremo alle forze sovietiche, che non avrebbero saputo nulla del piano di controffensiva mentre venivano decimate nei combattimenti per le strade. La difesa della città spettava a due armate sovietiche, la 62a e la 64a; i risoluti assalti da parte dei tedeschi costrinsero entrambe le armate a ritirarsi verso il centro della città. Alla fine di agosto il fronte era diviso in due: la 62a armata era arroccata nel cuore di Stalingrado, la 64a, respinta, teneva un piccolo caposaldo sul Volga, a sud-est del campo di battaglia principale. La maggior parte della popolazione civile era ormai stata evacuata sulla sponda orientale del fiume da una flotta di traghetti che faceva la spola, trasportando truppe, fucili e munizioni in una direzione, e i feriti e i profughi nell’altra; la 62a armata poteva resistere solo grazie agli sforzi assidui degli addetti ai rifornimenti militari e degli ingegneri per mantenere in funzione i transiti sul Volga, nonostante i pesanti e ripetuti attacchi aerei e dell’artiglieria. La lunga coda dell’armata - l’artiglieria, l’appoggio aereo e i servizi di retroguardia - si trovava invece tutta dall’altra parte del Volga: da questa posizione meno esposta gli artiglieri e i piloti creavano uno sbarramento incessante contro le forze tedesche in avvicinamento 15.
I combattimenti a Stalingrado erano cosa assai diversa dal tumultuoso sfondamento praticato dalle armate tedesche nella steppa. Poiché la città era stata praticamente distrutta dalla Luftwaffe in agosto, essa rappresentava un terreno di manovra difficile, sul quale i carri armati erano vulnerabili alle imboscate, o semplicemente rimanevano bloccati in mezzo alle macerie. L'avanzata non si misurava più in miglia, ma in metri al giorno. Inoltre la geografia di Stalingrado impediva una conquista rapida improvvisa. La città si estendeva infatti per 40 miglia lungo la sponda del fiume, dalle grandi fabbriche a nord - la fabbrica Ottobre Rosso, la fabbrica delle barricate, la fabbrica dei trattori - dietro alle quali si trovavano ampi isolati di case operaie, attraverso la zona residenziale e commerciale del centro, dominata dalla bassa collina di Mamaev Kurgan, fino alle abitazioni e ai terminali ferroviari a sud: ciascuna area della città divenne un campo di battaglia, ciascun edificio una fortezza da conquistare (carta 8). Lentamente, le forze tedesche si fecero avanti da nord e da ovest, usando le colline circostanti come vantaggiose postazioni di tiro per gli attacchi d’artiglieria contro la città. Il 3 settembre alcune unità si trovavano a sole due miglia dal fiume, incalzando la 62a armata attraverso un dedalo di stretti passaggi tra le fabbriche, intorno alla stazione centrale e ai moli principali, e ancora più oltre verso il restante terreno sopraelevato del centro cittadino. Il comandante della 62a, il generale Aleksandr Lopatin, dubitando che la sua armata, sottoposta a perdite spaventose, potesse tenere la città, iniziò a trasportare alcune unità dall’altra parte del Volga; per questo motivo fu prontamente destituito. Il comandante del fronte di Stalingrado, il generale Andrej Yeremenko, un rude ucraino la cui moglie e il figlio di quattro anni erano rimasti uccisi nell’attacco tedesco dell’anno precedente, fu costretto a trovare un sostituto proprio nel momento di massimo furore della battaglia.
La scelta ricadde su Vasilij Ivanovich Cujkov figlio di un contadino e veterano della guerra civile, che fino a poche settimane prima era stato in Cina come consigliere militare di Chiang kai-shek. Unitosi all'esercito sovietico in ritirata in luglio, si era distinto per aver lanciato attacchi circoscritti contro il nemico per rallentarne l’avanzata. Era stato fortunato a non morire ancor prima di arrivare a Stalingrado: nel raggiungere il fronte il suo autista ubriaco, che viaggiava a velocità sostenuta, aveva provocato un gravissimo incidente, che gli aveva procurato una settimana di ospedale per ferite alla schiena. Poche settimane più tardi, alla fine di luglio, se la cavò ancora una volta fortunosamente quando una missione di ricognizione aerea finì in modo disastroso con il suo aereo costretto a un atterraggio di fortuna: nell’impatto con il terreno l’aereo si spezzò in due e Cujkov fu proiettato fuori, ma se la cavò con un bernoccolo. Per sua stessa ammissione era «sano e audace di natura», un bell’uomo robusto, con una risata rumorosa che metteva in mostra due file di denti davanti interamente ricoperti d’oro. Imparava in fretta in battaglia ed era un maestro dell’improvvisazione e della sorpresa. Non mise mai in discussione il fatto che il suo compito fosse di rimanere a Stalingrado, e di morirci se necessario. Secondo tutte le testimonianze, era un capo di grande carisma, sebbene brutale, certamente dotato di sette vite 16.
Nei due mesi successivi Cujkov combattè un terribile duello con il suo omologo dall’altra parte del fronte, il generale Friedrich Paulus. I due nemici non avrebbero potuto essere più diversi. Ai tempi dell’assedio di Stalingrado Paulus aveva 52 anni ed era un ufficiale di carriera di successo, proveniente da una modesta famiglia borghese di Hesse e figlio di un funzionario di secondo livello. Sebbene sia spesso chiamato «von Paulus», il suo nome era in realtà semplicemente «Paulus», una vera rarità nelle alte sfere dell’esercito tedesco: un borghese che ha fatto carriera? Entusiasta del nuovo metodo di combattimento basato sui carri armati, si conquistò il posto nello Stato maggiore in virtù di notevoli capacità burocratiche; nel 1940 divenne vicecapo di Stato maggiore, ma fu rispedito sul campo nel gennaio 1942 al comando dell'eccellente 6* armata dopo l’improvvisa morte di von Reichenau per un attacco cardiaco. Era un candidato improbabile Por il confronto di Stalingrado: era infatti un uomo tranquillo e pacato, appassionato di Beethoven, alto, quasi ascetico, dominato da una preoccupazione ossessiva per il proprio aspetto personale, ohe si presentava ogni mattina con un colletto immacolato e stivali perfettamente lucidati. Durante l’avvicinamento a Stalingrado u caldo gli procurò stanchezza e fiacchezza; la sua salute peggiorò con attacchi di dissenteria, il «male russo». Man mano che le condizioni nella città peggioravano si fece sempre più depresso pensando al fardello imposto ai suoi sottoposti 17.
Quando Cujkov assunse il comando della 62a armata, Stalingrado era irriconoscibile: «Le case e le strade della città erano morte», scrisse, «sugli alberi non un ramo verde: tutto era stato distrutto dal fuoco. Delle case di legno non era rimasto che un mucchio di cenere e tubi di stufa contorti»18. Solo le strutture in cemento e ferro delle fabbriche, e gli edifici principali in pietra del centro si ergevano sopra il livello del terreno, privi di tetti, i muri interni sbriciolati; ci si contendeva ogni singola rovina finché anch’essa veniva polverizzata. Il primo giorno di comando di Cujkov, il 13 settembre, le forze tedesche si concentrarono per una spallata finale, nel tentativo di ricacciare le truppe sovietiche nel Volga; il giorno successivo presero la stazione ferroviaria centrale e la cima della Mamaev Kurgan. Cujkov fu costretto a spostare il suo quartier generale da una rozza caverna scavata sulla collina a un più sicuro bunker sulle sponde del fiume Carica, nei pressi della confluenza nel Volga; da qui egli diresse le sue forze sempre declinanti alla riconquista di punti chiave, o le guidò a nascondersi in piccoli gruppi in edifici che si trovassero lungo la linea dell’avanzata per combattere fino all’ultimo uomo e all’ultimo proiettile. Il fatto che in molti accettassero di farlo testimonia la natura straordinaria della lotta. Nel corso dei tre giorni successivi la stazione centrale cambiò di mano quindici volte; prima una parte poi l’altra combatterono per conquistare la sommità della Mamaev Kurgan. In grande inferiorità numerica e sotto un continuo bombardamento aereo, la 62a fu lentamente sospinta indietro; il 14 settembre si era ormai al culmine della disperazione. Al quartier generale di Stalin si prese la decisione di inviare gli unici rinforzi disponibili, la 13a divisione della Guardia al comando dell’eroe dell’Unione Sovietica Aleksandr Rodimcev.
Per Stalin gli uomini di Rodimcev avrebbero dovuto interpretare il ruolo avuto dalla «Divisione d’acciaio» a Caricyn un quarto di secolo prima. Era una corsa contro il tempo. Piccoli gruppi di ufficiali del quartier generale di Cujkov furono incaricati di tenere la strada che portava al molo dove ci si aspettava che sbarcassero i rinforzi: con solo quindici carri armati in tutto mantennero la posizione finché le prime diecimila guardie furono traghettate. Queste furono inviate direttamente sul campo di battaglia dopo una marcia forzata snervante; mille di loro non avevano neppure i fucili, e gli altri erano a corto di munizioni. Cujkov li spedì dritti nel cuore della battaglia per la zona centrale della città: non conoscevano il terreno e non avevano esperienza di combattimento urbano, ma riuscirono a resistere all’affondo tedesco e fornirono il tempo necessario per far affluire altre riserve e a Cujkov per riordinare le proprie forze. La divisione subì perdite vicine al 100 per cento e dovette essere ritirata; non prese quasi parte al resto della battaglia, ma gli uomini di Rodimcev entrarono nel mito di Stalingrado.
Nel corso dei giorni successivi la 6a armata conquistò nuovi tratti della zona centrale, compreso l’enorme grande magazzino Univermag sulla piazza Eroi dell’Unione Sovietica, negli scantinati del quale i difensori sovietici combatterono fino all’ultimo; Paulus ne fece poi il suo quartier generale. Più a sud era in corso una dura battaglia intorno a un gigantesco silos per il grano, dove un piccolo distaccamento di soldati sovietici mantenne la posizione per 58 giorni contro i carri armati e il fuoco d’artiglieria. Una spinta finale delle forze tedesche permise loro di aggiudicarsi la base d’attracco centrale sul fiume, ma uno sbarramento di artiglieria e di razzi dall’altra sponda impedì loro di sfruttare il vantaggio. La prima linea sovietica consisteva a questo punto di isolate sacche di resistenza, la cui forza principale era concentrata nell’ampia area industriale a nord della città; alcune unità erano isolate dietro il fronte tedesco e uscivano di notte per attaccare il nemico. Il 25 settembre Paulus volse le sue forze contro le fabbriche. Tre divisioni di fanteria e due corazzate attaccarono su un fronte lungo 3 miglia. Per più di un mese si ripropose il medesimo tema: attacchi tedeschi di giorno, controffensive sovietiche di notte, combattimenti corpo a corpo per ogni singolo stabilimento e ogni singola abitazione. Le forze sovietiche erano schiacciate dalla potenza di fuoco del nemico; una dopo l’altra le grandi fabbriche caddero, finché alla 62a rimase solo l’impianto delle barricate, sulla sponda del fiume.
Perché Paulus non riuscì a prendere la città, che fu tenuta per due mesi da forze costantemente a corto di rifornimenti, sottoposte a perdite debilitanti, pericolosamente in bilico sulla riva sinistra del Volga? Le forze tedesche avevano certamente perso smalto nei combattimenti man mano che si spostavano a oriente; la manutenzione dei carri armati e degli aerei si era fatta difficoltosa e tutte le unità avevano subito perdite elevatissime. Il morale delle forze tedesche subì un tracollo man mano che l'intensità della battaglia saliva: «Stalingrado è inferno» scrisse un sottufficiale tedesco alla madre in settembre, «una Verdun, una Verdun rossa con nuove armi. Attacchiamo tutti i giorni. Se al mattino riusciamo ad avanzare di venti metri, alla sera i russi ci ricacciano indietro»20. Le truppe tedesche furono disorientate dal passaggio da operazioni rapide e su larga scala a un fronte ristretto di combattimenti ravvicinati, dove era difficile fare valere efficacemente la pura e semplice forza dei numeri. Le forze sovietiche non se la passavano meglio, com’è ovvio: è ormai noto che più di 13.000 soldati sovietici furono giustiziati con l’accusa di aver abbandonato il posto di combattimento. La differenza fra i due schieramenti può però essere spiegata dalla maggiore abilità dei comandanti e soldati sovietici nel trarre pieno vantaggio dalle specificità del campo di battaglia urbano.
Sotto il comando di Cujkov l’Armata rossa sviluppò tutta una serie di innovazioni tattiche per tenere a bada il nemico. La maggior parte dei resoconti postbellici dei combattimenti sul fronte orientale non danno un giudizio positivo della tattica sovietica, ma è difficile non arrivare alla conclusione che la tattica abbia giocato un ruolo chiave nella sopravvivenza della 62a armata da agosto a novembre. Cujkov osservò l’approccio bellico tedesco con molta attenzione: notò quanto i tedeschi facessero affidamento su massicci attacchi aerei e d’artiglieria per spingere avanti la fanteria, come pure la riluttanza dei soldati tedeschi a ingaggiare combattimenti ravvicinati senza la protezione dei carri armati. Per ridurre l’impatto della potenza di fuoco tedesca insistette quindi sulla necessità che i due fronti non fossero a una distanza superiore a «un lancio di granata», rendendo così problematico l’attacco dei bombardieri tedeschi, che temevano di colpire i propri compagni. Fece molto più affidamento dei suoi nemici sul combattimento notturno e su quello all’arma bianca, con pugnali e baionette, armi adatte ai rudi siberiani, tartari e kazachi che costituivano la sua armata, ancor più del combattimento basato sull’uso dei carri armati e dell’artiglieria. Le forze sovietiche divennero esperte nell’arte della mimetizzazione e dell’attacco a sorpresa, tenendo continuamente i nemici tedeschi in uno stato di allerta e di timore. Un battaglione di cecchini si trovò pienamente a suo agio in un paesaggio dominato dalle rovine. Nascosti tra le macerie, con fucili a lunga gittata e mirini telescopici, sparavano a tutto quello che si muoveva: «I russi combattono con estremo accanimento», scrisse un altro sottufficiale tedesco nel suo diario, «ci sparano addosso da tutte le parti, da tutti i buchi, non possiamo sollevare la testa»21. Di notte «gruppi d’assalto» specializzati erano soliti attaccare i bunker tedeschi a grande distanza dalle linee sovietiche. Al lancio delle granate e al grido di esultanza delle truppe sovietiche, i soldati tedeschi si svegliavano per trovarsi circondati dal fuoco di armi automatiche. All’alba i gruppi d’assalto svanivano nei loro ricoveri e nelle buche, portando con informazioni aggiornate sulla forza e lo schieramento dei tedeschi. A differenza di molti altri generali sovietici Cujkov insisteva sulla necessità di un’attenta raccolta di informazioni in modo da poter utilizzare le poche forze a sua disposizione nel modo più efficiente.
Man mano che la battaglia proseguiva la 62a armata ricevette un appoggio crescente da parte dell’artiglieria e delle forze aeree. C’erano trecento cannoni, sull’altra sponda del Volga, puntati contro le unità tedesche in avanzata, che furono integrati da un’arma ancor più temuta dai fanti tedeschi, il lanciarazzi multiplo Katjusa. Ideato nel 1940, il lanciarazzi B-13 ricevette il proprio soprannome da una famosa canzone popolare del tempo, Katerina: era in grado di sparare una salva di oltre 4 tonnellate di esplosivo su un’area di 40.000 mq nel giro di 7-10 secondi. La stessa scarsa precisione rappresentava un punto di forza, perché i nemici potevano a mala pena sentire i razzi in arrivo ma non potevano prevedere dove sarebbero caduti. Cujkov usò i lanciarazzi, montati su camion normali, direttamente in prima linea; quando le sue forze vennero respinte fino alla riva del fiume, i camion furono sistemati a cavallo dell’argine, con le ruote posteriori sospese sull’acqua, per poter mantenere la linea di tiro22. Ai proiettili e ai razzi si aggiungevano le bombe: l’8a armata aerea sovietica diede un sempre maggiore appoggio ai difensori di Stalingrado, mentre l’attività aerea tedesca diminuiva lentamente in condizioni metereologiche che determinarono un rapido deterioramento dei mezzi con perdite crescenti. Da parte sovietica si registrarono chiari miglioramenti riguardanti sia gli equipaggiamenti sia la tattica: in novembre c’erano già 1.400 mezzi aerei sul fronte di Stalingrado, per tre quarti moderni aerei da combattimento, compresa una buona quota dei nuovi caccia Yak-9 e La-5, che erano finalmente in grado di contrapporsi efficacemente all’aviazione tedesca. Un programma intensivo di addestramento al volo notturno rese possibile un maggior numero di sortite col favore delle tenebre contro le postazioni tedesche. Il principale limite fino ad allora delle forze aeree sovietiche era dato dalle comunicazioni scadenti, che rendevano difficile il controllo di operazioni aeree o la conduzione accurata degli attacchi; dal settembre del 1942 il comandante delle armate aeree sovietiche, A.A. Novikov iniziò un esperimento di controllo via radio delle forze aeree sul fronte meridionale che rese possibile schierare e guidare i mezzi esattamente come faceva la Luftwaffe. La forza aerea sovietica aveva parecchio da recuperare, ma il distacco tra le due aviazioni iniziò a ridursi nei mesi critici della difesa di Stalingrado.
Un ulteriore vantaggio per i sovietici era rappresentato dallo stesso Cujkov, che continuò a godere di una protezione quasi «magica». In settembre sfuggì per miracolo alla morte quando una bomba colpì direttamente il suo bunker di comando. Il 2 ottobre un attacco aereo distrusse grandi cisterne di petrolio situate proprio sopra il suo nuovo quartier generale nei pressi della riva del fiume e una marea di carburante in fiamme si riversò nel rifugio; in qualche modo lui e il suo Stato maggiore riuscirono a sfuggire all’ondata di fiamme, che si riversò nel Volga e iniziò a scendere seguendo la corrente. Per buona parte delle ultime settimane di battaglia la sua base di comando non si trovò mai a più di qualche centinaio di metri dalle forze tedesche più vicine; da questa postazione egli coordinò le sue truppe scompigliate ed esauste in una serie interminabile di attacchi disperati. Dopo la dura difesa della zona industriale, che portò entrambe le parti allo stallo alla fine di ottobre, Paulus raccolse le sue forze per un attacco finale. Hitler era a Monaco a seguire la cerimonia annuale di commemorazione del fallito putsch nazista del 9 novembre 1923: davanti a una platea di fedeli militanti giurò che sarebbe presto stato «il padrone di Stalingrado». Quello stesso giorno, nelle fredde prime ore del mattino, cinque divisioni di fanteria e due divisioni corazzate, tutte di potenza decisamente ridotta, lanciarono l’ultima offensiva tedesca a Stalingrado: alla fine della mattinata la 62a armata era spaccata in due e le forze tedesche occupavano 500 metri di sponda del Volga, ma negli altri punti l’attacco procedeva assai lentamente. Cujkov organizzò una difesa attiva, ordinando contrattacchi locali e una continua attività di logoramento. Il 12 l’offensiva si stava già affievolendo; pochi giorni dopo i gruppi d’assalto sovietici iniziarono a riconquistare la zona industriale, le falde della Mamaev Kurgan, annerite dal fuoco dell’artiglieria in una città per il resto imbiancata dalla neve, e i grandi edifici del centro che ancora rimanevano in piedi. Ufo novembre Cujkov e il suo Stato maggiore erano riuniti nel bunker per discutere il prosieguo delle operazioni quando ricevettero una telefonata misteriosa dal quartier generale del fronte li avvertiva di tenersi pronti per un ordine speciale. Arrivò a mezzanotte: il giorno successivo le armate schierate sul vicino fronti sud-occidentali avrebbero attaccato e circondato forze tedesche, facendo scattare la trappola che Zukov aveva preparato in settembre.
La controffensiva sovietica funzionò perfettamente: le forze nemiche furono colte completamente di sorpresa, dato che, sebbene i comandanti locali avessero notato da un po’ di tempo movimenti di truppe sovietiche lungo i fianchi tedeschi, gli alti dell'esercito avevano esitato a comunicare la notizia a Hitler nel momento in cui la vittoria a Stalingrado sembrava ormai imminente. Al quartier generale di Hitler si dava per scontato che la battaglia per la città avesse eroso le riserve e che ci fosse ormai ben poco che consentisse un’operazione su vasta scala. Il comandante in capo di Hitler, generale Jodl ammise in seguito che questo era stato un «gravissimo fallimento» dello spionaggio tedesco. Il giorno prima dell’attacco il generale Reinhard Gehlen capo dei servizi segreti militari sul fronte orientale, aveva previsto attacchi limitati, ma senza indicare alcuna data o direzione26. In effetti, con la copertura delle tenebre, delle nuvole e delle nevicate, prestando grande attenzione alla mimetizzazione e alla copertura dei movimenti dei carri armati, lo Stato maggiore sovietico t aveva costituito una forza di più di un milione di uomini, con quasi 14.000 cannoni e mortai pesanti, 979 carri armati (per la maggior parte i versatili e ben armati T 34) e 1.350 mezzi aerei7. Erano raggruppati su tre fronti: i fronti sud-occidentale e del Don a nord delle linee tedesche, e il fronte di Stalingrado a sud e a sud-est. A questi si contrapponevano le truppe rumene e deboli divisioni della riserva tedesca. Alle 7,30 del mattino del 19 novembre il fronte nord diede il via al fuoco di sbarramento dell’artiglieria; due ore dopo le forze rumene furono respinte da un assalto furioso da parte di tre armate sovietiche. Per la prima volta i comandanti sovietici si trovarono di fronte alla possibilità di fare ciò che il nemico sapeva fare così bene: condurre un’operazione ad ampio raggio con forze mobili in campo aperto, sfondando le linee difensive con carri armati e mezzi aerei.
Le forze sovietiche avanzarono velocemente. Il 20 novembre armate meridionali, su un terreno meno difficoltoso, furono scatenate contro altri sventurati rumeni. Nei primi giorni si catturarono molti soldati, armi e rifornimenti: «Situazione disperata fin dalle prime ore del giorno», scrisse uno sfortunato rumeno nel suo diario il 21. «Siamo circondati. Grande confusione... Indossiamo gli abiti migliori, anche due completi di biancheria. Ci aspettiamo di fare una brutta fine»28. Come migliaia di altri si arrese. Nel giro di tre giorni le unità mobili sovietiche raggiunsero il Don a quasi 150 miglia dal loro punto di partenza. La loro avanzata fu così rapida che le sentinelle tedesche di guardia a un ponte di importanza vitale sul Don, nei pressi di Kalac, pensarono che i carri armati in avvicinamento fossero il turno di guardia successivo, arrivato per sostituirli. Quando si resero conto dell’errore era ormai troppo tardi, e le forze corazzate sovietiche erano libere di riversarsi a sud per prendere contatto con le armate che avanzavano in direzione opposta. Il 22 novembre, a Soveckij, a sud-est di Kalac, le due forze si congiunsero e Paulus fu circondato. L’intera area della steppa alle spalle dell’armata tedesca era in una situazione di caos. La piana innevata era coperta dai grotteschi cadaveri congelati di oltre diecimila cavalli, alcuni bloccati in posizione eretta come statue. Quasi tutte le divisioni più deboli lungo il saliente furono eliminate. Le armate sovietiche si aprirono a ventaglio a est e a ovest, creando un corridoio solidamente difeso largo più di 100 miglia che isolava la 6a armata tedesca e parte della? armata Corazzata e respingendo tutto il fronte meridionale dei tedeschi sulle posizioni dell’agosto precedente. La reazione immediata di Paulus era stata di far retrocedere rapidamente le forze tedesche, per sfuggire alla trappola, ma Hitler, che non si rendeva assolutamente conto di quali erano stati i risultati dell’operazione sovietica ed era ossessionato dalla conquista della città, gli ordinò di tener duro e aspettare una forza di soccorso. Nonostante i comandanti di Paulus lo esortassero a sfuggire alla morsa, egli si attenne agli ordini: più o meno 240.000 soldati tedeschi e i loro alleati, con solo un centinaio di carri armati e 1.800 cannoni, si apprestarono a difendere disperatamente un’area brulla lunga 35 miglia e larga 20, il «calderone» di Stalingrado.
Le notizie provenienti dal fronte sovietico giunsero subito dopo gli sbarchi alleati in Africa settentrionale e la sconfitta di Rommel a El Alamein. Hitler, che si era ritirato nella sua ridotta bavarese, il Berghof, si affrettò a tornare al quartier generale invernale di Rastenburg, nella Prussia orientale, dove fece il punto della situazione. Sul principio, secondo un testimone, era «assolutamente indeciso sul da farsi», ma restava, come disse a Mussolini il 20 novembre, «uno di quegli uomini che di fronte alle avversità si fanno semplicemente più determinati». La decisione di resistere e difendere Stalingrado era in parte una dimostrazione di tale determinazione, in parte derivava dalla comprensione di ciò che avrebbe significato per il morale dello sforzo bellico tedesco una ritirata o una resa. Per giustificare l’ordine impartito a Paulus si aggrappò all’esile speranza che gli venne porta dal comandante delle forze aeree, Hermann Goring, il quale il 24 novembre si trovava al quartier generale per discutere della situazione di Stalingrado. Per quanto lo Stato maggiore di Goring dubitasse che la Luftwaffe potesse fare alcunché di rilevante a sud dopo le perdite subite durante l’estate e l’autunno, il loro imprevedibile capo garantì a Hitler che la città assediata poteva essere rifornita per via aerea, fino al momento in cui fosse possibile organizzare una forza di soccorso che si aprisse la strada in quella direzione: promise di consegnare 500 tonnellate di rifornimenti al giorno. Armato delle sue rassicurazioni, quel giorno Hitler ribadì a Paulus la necessità di resistere.
Il ponte aereo si rivelò un disastro: invece delle 500 tonnellate promesse, l’aeronautica fornì meno di 100 tonnellate al giorno, e ancora meno alla fine di dicembre e per tutto gennaio Alla fine dell’ anno le unità della Luftwaffe a oriente erano ridotte ad appena un quarto della loro forza e si trovavano a volare nella morsa dell’inverno russo, a corto di carburante e di tecnici. Le forze tedesche furono confinate in un’area sempre più ristretta del territorio interno alla città e così il numero di aeroporti disponibili diminuì sensibilmente, finché alla metà di gennaio si dovettero lanciare i rifornimenti col paracadute. Aerei aa trasporto lenti e male armati dovevano volare per più di 150 miglia, partendo da campi male attrezzati e affollati, su un territorio controllato dal nemico. Il dominio sui cieli intorno a Stalingrado, appannaggio dei tedeschi fino a ottobre, venne meno. In dicembre cerano meno di 375 caccia tedeschi su tutto il fronte sovietico, e molti erano inservibili. Per rinforzare il declinante numero di piloti abbastanza abili da affrontare la difficile rotta invernale, aerei ed equipaggi furono distaccati ai centri d’addestramento in Germania. Le forze aeree sovietiche organizzarono un blocco aereo efficace intorno alla città, mentre le forze di terra combattevano per conquistare gli aeroporti ancora in mano ai tedeschi. In meno di due mesi la Luftwaffe perse 488 aerei da trasporto e mille uomini d’equipaggio, mentre le forze tedesche nel «calderone» si ritrovarono a corto di cibo, munizioni e medicinali.
Mentre la Luftwaffe andava verso il disastro perseguendo un obiettivo irrealizzabile, hesercito tedesco progettava una drammatica missione di soccorso terrestre. L’ispiratore fu il feldmaresciallo Ericlivon Manstein, il vincitore di Sebastopoli, messo al comando del gruppo di armate del Don, frettolosamente costituito, che comprendeva forze sparpagliate a occidente dall’offensiva sovietica e le riserve tedesche rimanenti. Un piccolo gruppo di divisioni corazzate si raccolse a sud del corridoio sovietico, a Kotelnikovo, sotto il comando del generale Hermann Hoth: Manstein progettava di usare questo gruppo per sfondare le linee sovietiche, congiungersi all’esercito di Paulus muovendo verso sud-est e quindi ritirarsi su una linea difensiva sicura. Il tentativo ebbe inizio, sotto una pioggia torrenziale, il 12 dicembre e andò avanti con buoni risultati nonostante le condizioni avverse. Il 23 dicembre le forze di Hoth erano avanzate di 40 miglia, poi rimasero bloccate in furiosi combattimenti di carri armati contro i rinforzi sovietici prontamente inviati nella zona. Si era giunti al momento critico dell’intera campagna di Stalingrado. Dopo la sorpresa iniziale dell’assalto tedesco, infatti, i comandanti sovietici, in gran fretta e con scarne informazioni sulle intenzioni tedesche, riuscirono a organizzare un forte contrattacco. Sebbene sia Manstein sia Paulus si lamentassero nelle rispettive memorie che si sia persa l’occasione di combattere per una ritirata dignitosa da Stalingrado a causa dell’insistenza di Hitler perché Paulus mantenesse le posizioni, la verità è più complessa.
Quando Zukov e lo Stato maggiore sovietico progettarono di accerchiare Paulus a Stalingrado, si resero conto che le forze tedesche non sarebbero rimaste a guardare ma avrebbero tentato di soccorrerlo: il piano «Urano» prevedeva dunque tale eventualità. Il corridoio che separava Paulus dal resto delle forze tedesche doveva essere abbastanza ampio da rendere il soccorso difficile, e doveva avere una prima linea di difese e riserve tale da far fronte a qualunque affondo tedesco. Nella breccia furono riversate più di sessanta divisioni sovietiche, con quasi “mille carri armati Nonostante le forze di Manstein, pur con un numero minore di carri armati, facessero progressi notevoli tra violente bufere di neve e su un territorio difficile e ben difeso, l’alto comando sovietico potè ridistribuire le proprie riserve sul fianco destro e di fronte alle forze in avanzata. Il 24 dicembre c’era già un notevole rischio che l’intera forza che cercava di avanzare verso Stalingrado finisse anch’essa accerchiata: Manstein fu così costretto a ordinare la ritirata, l’ultimo azzardo nella disfatta. Le forze sovietiche passarono all’attacco su tutto il fronte tedesco meridionale, distruggendo gìi^eserciti italiano e ungherese e le ormai deboli divisioni tedesche^ e avanzarono verso Rostov sul Don. Il risultato fu un grande successo a livello operazionale per i comandanti sovietici. Se per tutto il 1941 e il 1942 l’esercito tedesco aveva approfittato dell’incapacità sovietica di coordinare le proprie forze, di reagire agli avvenimenti, di elaborare un piano ed eseguirlo in maniera coerente, non furono solo gli errori tedeschi a provocare la sconfitta di Hitler a Stalingrado: durante la dura guerra di logoramento del 1942 l’Armata rossa era andata maturando.
Per Paulus la fine era ormai solo questione di tempo. Alla fine di dicembre non c’era alcun modo di soccorrere i suoi soldati: le forze tedesche, quasi 250.000 uomini, costituivano ancora un ostacolo, ma le condizioni in cui si trovavano comportavano un deterioramento della loro capacità e volontà. Su di essi agivano una disperata necessità di viveri, i bombardamenti incessanti, il collasso dei servizi medici per i feriti e i malati e la sinistra, insopportabile consapevolezza di non avere via di scampo. Wilhelm Hoffmann, un fante tedesco arrivato a Stalingrado con la sua unità agli inizi di settembre, scrisse l’ultima annotazione sul diario il 26 dicembre: «Abbiamo già mangiato i cavalli. Sarei pronto a mangiare un gatto, dicono che la sua carne sia buona. I soldati somigliano a morti o a pazzi, cercano qualsiasi cosa da ficcare in bocca. Non tentano più di sfuggire ai proiettili russi, non hanno più la forza di camminare, di curvarsi, di nascondersi». In gennaio le temperature scesero a -30° e le razioni erano ridotte a 60 grammi di pane al giorno, 15 di zucchero e un po’ di carne di cavallo; ogni soldato aveva diritto a una sigaretta. Il carburante e le munizioni scarseggiavano: i cannoni tedeschi che avevano raso al suolo la città sparavano solo sporadicamente. Le truppe scavarono dei rifugi sotterranei e delle trincee e rimasero ad aspettare il peggio.
Stalin e Zukov non si preoccuparono di dare il colpo di grazia al «calderone» finché erano in corso le furibonde battaglie Per la riconquista della steppa del Don. Il servizio segreto informò il comando supremo che nella rete erano rimasti solo 80.000 non tutti militari combattenti. Si diede per scontato che l'armata si sarebbe presto arresa o sarebbe stata eliminata con comodo; così il piano per distruggere la sacca tedesca, operazione «Kolco» in codice, non fu elaborato fino al 27 dicembre. Fu proposto che le armate del fronte del Don, a nord di Stalingrado, attaccassero da occidente a oriente, spingendo le forze tedesche all’interno della città, dividendole in gruppi più piccoli che sarebbero poi stati decimati dai bombardamenti aerei e d’artiglieria, poco per volta. Alcune difficoltà nel portare i rifornimenti e gli uomini in posizione fecero ritardare l’offensiva fino al 10 gennaio, con grande irritazione di Stalin. La forza raccolta attorno al perimetro del «calderone» era un martello dal quale ci si aspettava che schiacciasse la noce: 47 divisioni sovietiche, 5.600 mortai e cannoni pesanti, 169 carri armati e 300 aerei. Due giorni prima che scattasse l’attacco venne data a Paulus la possibilità, di, arrendersi. Una piccola delegazione di soldati si avvicinò alle linee tedesche ma fu accolta a colpi d’arma da fuoco. II giorno successivo, con tanto di trombettiere e bandiera rossa, ci riprovarono; questa volta vennero accompagnati, con gli occhi bendati, alle linee tedesche. Paulus rifiutò però di incontrarli e le condizioni della resa furono respinte senza nemmeno ascoltarle. Il giorno successivo, il 10 gennaio, alle otto del mattino, l’artiglieria sovietica aprì il fuoco di sbarramento più potente dall'inizio della guerra.
Quando le armate sovietiche iniziarono ad avanzare, la decisa resistenza delle forze tedesche le costrinse a progredire assai lentamente: le battaglie furibonde ingaggiate da un nemico considerato ormai in ginocchio causarono perdite sorprendentemente pesanti. Terrorizzati per quanto avrebbe potuto accadere loro se catturati, i soldati tedeschi combatterono infatti con tutta l’energia che riuscirono a raccogliere; era dunque il loro turno di combattere fino all’ultimo uomo e all’ultimo colpo. Pochi giorni dopo i comandanti sovietici seppero perché l’avanzata era così costosa in termini di risorse: si scoprì, da ordini intercettati e dagli interrogatori dei prigionieri, che in novembre erano stati circondati 250.000 uomini, non 80.000 come si credeva, vale a dire un numero superiore a quello delle forze che attaccavano la città, che per di più avevano ordine di non arrendersi, di morire da eroi. E la maggior parte morì, per le ferite, per il freddo, per la fame, a centinaia di miglia dal quartier generale di Hitler, dove il capo di Stato maggiore dell’esercito ordinò con un’ostentata dimostrazione di solidarietà ai suoi subordinati di mangiare «razioni da Stalingrado» mentre la battaglia imperversava38. Le forze sovietiche si aprirono un varco nelle linee di difesa più avanzate, finché, sotto il peso dei cannoneggiamenti e dei bombardamenti, il fronte tedesco, privo ormai di munizioni e armi pesanti, cedette. Il 17 gennaio la sacca occupata aveva una superficie di meno della metà di quella coperta all’inizio dell'operazione «Kolco»; il 22 gennaio iniziò l’ultimo affondo per entrare nella città, dove un terzo delle forze tedesche originarie si era rintanato. Un numero crescente di soldati tedeschi iniziò ad arrendersi in condizioni di assoluta disperazione e di panico totale. Coloro che rimasero nei Bunker vi restarono intrappolati dai pesanti carri armati che passavano sopra le loro teste o stanati dai lanciafiamme e dalle granate. Il 26 gennaio le unità avanzate degli attaccanti si congiunsero finalmente con la 62a armata, che aveva continuato a tenere la sponda occidentale del Volga: un’incudine per il martello sovietico. Alle 9,20 del mattino gli uomini della 13a divisione della Guardia di Rodimcev che stavano attaccando la fabbrica Ottobre Rosso assistettero alle scene di panico tra le unità tedesche che resistevano. Dalla collina a ovest degli impianti scendeva una lunga colonna di carri armati della forza di liberazione sovietica. I soldati delle due armate si abbracciarono tra le lacrime39.
Cinque giorni più tardi il grosso delle forze tedesche superstiti si arrese. Paulus fu trovato da un piccolo distaccamento di truppe sovietiche sotto il comando del tenente Fèdor Jelcenko nel suo quartier generale nei sotterranei del grande magazzino Univermag, con centinaia di soldati tedeschi terrorizzati che si accalcavano nell’aria fetida degli scantinati sovraffollati. Depresso, quasi distaccato dal sinistro ambiente che lo circondava, Paulus rifiutò di incontrare faccia a faccia coloro che lo avevano catturato. I suoi aiutanti accettarono la resa e chiesero un automobile per allontanare il loro capo evitandone il linciaggio. Paulus e 23 generali tedeschi furono fatti prigionieri, e Paulus finì per rinnegare gli errori del passato. Finì i suoi giorni a Dresda, nella Germania comunista, dove morì nel 1957. A nord della città le forze tedesche rifiutarono di accettare la resa e continuarono a combattere fino al 2 febbraio, quando non ebbero più alcun mezzo per farlo. La battaglia di Stalingrado era finalmente giunta al termine.
Non c’era dubbio che l’Armata rossa avesse riportato una vittoria importante. A Mosca il giornalista Alexander Werth notò un cambiamento psicologico notevole nella popolazione nella quale non si ravvisava più una disperazione sinistra e carica d’ansia, ma una nuova fiducia nelle proprie capacità: «Nessuno dubito che quella non fosse la svolta della guerra», avrebbe poi scritto Werth. L'aura di invincibilità della Germania svanì: le perdite tedesche erano catastrofiche? Nelle battaglie combattute da novembre a quel momento erano state annientate 32 divisioni di truppe tedesche, rumene, ungheresi e italiane e altre 16 erano state ridotte a poca cosa Dodicimila tra cannoni e mortai erano stati distrutti o erano caduti in mano ai sovietici; secondo le fonti sovietiche, lo stesso destino era toccato a 3.500 carri armati e 3.000 aerei42. La stampa sovietica non faceva che citare Canne, l’antica battaglia nella quale i cartaginesi di Annibale avevano messo in rotta i romani. Agli inizi di febbraio Werth fu invitato, insieme ad altri giornalisti occidentali, a visitare la scena del trionfo sovietico. Mentre si avvicinavano a Stalingrado furono circondati da una fiumana apparentemente senza fine di uomini, camion, cavalli, persino cammelli, che si muovevano disordinatamente verso occidente per affrontare altre battaglie. La temperatura era di -44°. A Stalingrado il campo di battaglia era un quadro congelato dei combattimenti: cadaveri di uomini e cavalli immobili dove erano caduti, carri armati e camion bruciati, i resti di una lotta crudele. Negli scantinati della Casa dell’Armata rossa, a Werth furono mostrati duecento tedeschi emaciati e divorati dalle malattie, la pelle xxxxxx e ingiallita, che rosicchiavano le ossa dell’ultimo cavallo mentre attendevano, indossando cappotti consunti e stracci al posto degli stivali, di essere portati ai campi di prigionia. «Dalle parti della Casa dell’Armata rossa, a Stalingrado», avrebbe poi pensato Werth, «sembrava esserci una rozza ma divina giustizia».
La caduta della città ebbe risonanza mondiale. Un anno prima, un fascio di mappe inviato da Londra a Mosca, utilmente etichettato «Seguire la GUERRA su questa mappa del MONDO in proiezione Mercatore», non indicava neppure la posizione di Stalingrado; ora questo nome era sulle labbra di tutti. II 20 febbraio le città britanniche celebrarono la Giornata di Stalingrado, a venticinque giorni (in realtà a diciassette) di distanza. Il giorno successivo la Royal Albert Hall ospitò una scintillante parata della crema della società inglese, ansiosa di rendere omaggio al valore dell’Armata rossa. Tre settimane dopo la conquista di Stalingrado, Stalin inviò a Churchill i filmati relativi alla battaglia che Churchill, immobilizzato da una polmonite, guardò grazie a un proiettore privato installato nella sua camera da letto45. Gli effetti sugli alleati di Hitler, che si trovarono a condividerne la sconfitta, non furono meno devastanti, poiché le sofferenze inferte alle forze rumene, italiane e ungheresi fecero di questi popoli degli alleati riluttanti: era ormai certo, disse il ministro degli Esteri italiano a Mussolini 1’8 febbraio, che sarebbero venute ore dure.
Hitler, come al solito, incolpò tutti tranne se stesso della catastrofe. Quando gli fu comunicata la resa di Paulus poté a stento trattenere la rabbia; il giorno prima lo aveva promosso feldmaresciallo. Per quanto si fosse cullato fino alla fine nell’illusione che si potesse salvare la 6a armata in primavera, si aspettava che Paulus combattesse fino all’ultimo se l’operazione di salvataggio si fosse dimostrata irrealizzabile, e che tenesse l’ultimo proiettile per se stesso. Divenne ossessionato dall’idea che l’eroico sacrificio di così tanti soldati tedeschi fosse stato infangato dalla debolezza di «un unico individuo debole e privo di carattere»47. Rifiutò di sentire nominare Goring per settimane, poiché questi non aveva saputo mantenere il ponte aereo. I suoi aiutanti lo videro invecchiare visibilmente nel periodo della crisi, in preda a disturbi gastrici che gli causavano un alito insopportabile, al cattivo umore e alla depressione. 11 suo modo di affrontare il contraccolpo psicologico fu di fingere che Stalingrado non ci fosse mai stata: si rifiutò di menzionarla e si immerse in un mare di insensato lavoro sui piani di vittoria per il 1943 48. Ma non era possibile nascondere il disastro all’opinione pubblica tedesca: troppi erano stati i morti e i prigionieri per far finta che Stalingrado non fosse mai esistita.
C’è sempre stata la tentazione di vedere in Stalingrado là svolta della seconda guerra mondiale: il feldmaresciallo Keitel capo di Stato maggiore di Hitler, confessò in seguito che era stato questo il momento in cui la Germania aveva «giocato la sua ultima carta e perso». Ma di per sé non rappresentò una vittoria decisiva. Dimostrò il notevole miglioramento delle capacità operative e di combattimento dei soldati sovietici e delle armi a loro disposizione. Le dimensioni enormi della carneficina su entrambi i fronti, il combattimento fino allo stremo per una città che non esisteva più indicavano il carattere particolare della lotta selvaggia fra invasore e vittima. La vittoria ebbe un impatto morale e psicologico che andava ben al di là della sua importanza strategica, ponendo le basi della fiducia dei sovietici nelle proprie capacità per le battaglie del 1943, queste sì decisive.